Il sistema è andato in tilt. È vero, lo ammettono tutti gli operatori compresi gli stessi magistrati. Tutto ha una matrice ben precisa: la riforma del processo penale del 1988, la riforma del giusto processo del 2000. Le due riforme, più quella sul giudice unico che non ha risolto i problemi, hanno interferito negativamente tra di loro, creando un sistema confuso e contraddittorio. Non sono stati introdotti correttivi normativi e organizzativi adeguati, per quanto fosse stata prevista l’istituzione di una apposita commissione per valutarne l’impatto.
Nessuna modifica è stata fatta dei mezzi di impugnazione, non si sono diffusi nella misura prevista i riti alternativi, non sono state introdotti strumenti di semplificazione degli adempimenti formali.
Le riforme hanno determinato tempi più lunghi per fare un processo penale, ciò ha ridotto le capacità dei magistrati di smaltire l’arretrato e si è determinato un aumento progressivo delle pendenze, nonostante vi sia stato un aumento sempre maggiore del rendimento complessivo del lavoro dei magistrati.
Non solo, ma negli ultimi tempi la magistratura associata, il CSM ed i singoli magistrati hanno anche preso coscienza nella necessità – in assenza di interventi ministeriali – di studiare prassi e metodi per migliorare lo smaltimento dei processi. I criteri di priorità, l’organizzazione delle udienze, la temporaneità degli incarichi direttivi con la possibilità di proroga una sola volta previa v eventuale valutazione positiva. Negli ultimi mesi sono stati attribuiti oltre 400 nuovi incarichi direttivi e semidirettivi, che hanno rinnovato la classe dirigente della magistratura avviando un meccanismi di verifica continua della funzionalità degli uffici.
Ma non basta. Parlare di “processo breve” senza introdurre innovazioni strutturali nel processo e lasciando il sistema immutato è una boutade. Imporre per legge una durata prestabilita per i processi penali, indipendentemente ed a prescindere dallo loro complessità, senza una analisi delle cause del cattivo funzionamento del sistema, senza un monitoraggio preciso dello stato della situazione e senza una prognosi credibile degli effetti dei termini di durata che si intende introdurre è la dimostrazione di mancanza di cultura di governo.
In particolare è del tutto paradossale che un ministro non si faccia carico, prima di suggerire una riforma del genere, di rendere pubblica la fotografia del funzionamento del sistema attraverso statistiche aggiornate. Le statistiche rese pubbliche dal ministero in ordine al movimento dei processi sono aggiornate sul sito della giustizia sino al primo semestre 2006, nonostante esistano dati analitici aggiornati quasi in tempo reale. Ho motivo di ritenere che i dati più recenti siano tenuti nascosti perché essi dimostrano il miglioramento di rendimento degli uffici e del lavoro dei magistrati. Il Ministro in modo arrogante sbandiera una percentuale di impatto del proposto disegno di legge dell’1% senza minimamente indicare, in violazione delle norme più elementari di trasparenza statistica, quale sia il metodo ed il procedimento aritmetico attraverso il quale è giunto a quelle conclusioni. Ed ha l’arroganza di sostenere che esse siano precise nonostante facciano riferimento ad una base non significativa. L’88% della base di riferimento di quella percentuale è costituita da procedimenti ai quali il disegno di legge non può essere applicato in quanto procedimenti destinati all’archiviazione o a non superare la fase delle indagini.
I termini di fase per l’estinzione del processo sono destinati solo ai processi destinati a finire con sentenza, cioè che vanno a giudizio. Questi sono grosso modo circa 370.000 all’anno e non i tre milioni indicati dal Ministro.
I procedimenti destinati a finire con sentenza possono essere, in base alla tipologia del reato, quelli a citazione diretta del PM e quelli a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, in base ad una scelta dell’imputato quelli definibili dal GUP a seguito di giudizio abbreviato e quelli destinati al Tribunale monocratico o collegiale a seguito di udienza preliminare.
Questi diversi riti hanno strutture e complessità completamente diverse, sicché la sanzione della estinzione va non già a ripartirsi in modo equilibrato tra tutte queste categorie, ma a colpire i diversi riti in misura proporzionale alla complessità. Sicché la estinzione colpirà in modo quasi totale i procedimenti che passano per l’udienza preliminare, che ha due diversi momenti di trattazione, uno dinanzi al GUP ed uno dinanzi al Tribunale. Ovviamente, in vista della possibilità di estinzione, nessuno sceglierà più di definire il giudizio dinanzi al GUP, ancorché il giudizio a abbreviato preveda la riduzione della pena di un terzo. Quando la estinzione è certa, la prospettiva della riduzione di un terzo diventa priva di significato. E la estinzione è certa, perché circa un terzo dei processi è in genere a carico di detenuti, che vanno celebrati con priorità assoluta, sicché i tempi per trattare l’altro 70% si sposteranno ancora indietro nel tempo sino a superare complessivamente i due anni. E, difatti, l’analisi compiuta sia a Bologna che a Roma, dà lo stesso risultato del 70% di questa tipologia di processi che – stando così le cose – ha una durata superiore ai due anni.
E tra i processi che vanno a giudizio il 50% vanno a toccare i procedimenti provenienti da udienza preliminare. Anche le altre categorie di riti, per quanto meno complesse hanno dei tempi da affanno e, quindi ne risentiranno anche parte dei reati della delinquenza comune, ovviamente quelli con imputati a piede libero che sono destinati ad essere posposti.
Ma la complessità talvolta dipende dalla molteplicità degli imputati e dalla difficoltà delle questioni da trattare. Quindi, la possibilità di lucrare l’estinzione sarà anche maggiore in proporzione al numero degli imputati ed alla delicatezza delle questioni.
La prospettiva in presenza di questa sanzione processuale ed in assenza di interventi sarà allucinante: la fine del processo e la sopravvivenza della sola giustizia penale nei confronti di coloro che saranno arrestati e di parte della criminalità da strada. Certamente si tratta di grandi numeri, perché si tratta di buona parte di coloro che finiscono dinanzi ad un Tribunale, da essi saranno completamente escluse.
Il sistema non funziona perché è ingolfato a causa di un contenzioso troppo elevato, di errori pregressi e di un disservizio che prima si sopportava perché vi era minore coscienza dei propri diritti, perché il legislatore non vi ha messo mano al momento opportuno, perché non ha trovato le soluzioni giuste, perché nella vita di relazione non vengono addottati sufficienti meccanismi per evitare e ridurre le situazioni di contenzioso, di disagio e di sopraffazione.
Non è che non vi siano soluzioni per uscire da questa situazione. Ma occorrono rimedi strutturali, mentre sino ad oggi si è pensato che fossero sufficienti palliativi. Il sistema non si può permettere di giudicare più volte le stesse questioni, siamo attaccati al principio della ripetizione del giudizio, di un primo e di un secondo grado. Nei sistemi moderni la ripetizione del giudizio dovrebbe essere ammissibile soltanto se nel primo giudizio sia stata violata una norma di legge. Invece nel nostro sistema è sempre ammessa. La convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che sia prevista l’impugnazione, ma è sufficiente quella che è possibile fare in Cassazione proprio per verificare se il giudizio abbia rispettato le regole del diritto. L’attuale sistema induce al raddoppio i tempi dei processi. Certo si potrebbe lasciare inalterato il sistema nei casi di grande complessità, per esempio per tutti i processi di Assise o che comportano in concreto una pena superiore ai tre anni, che in penale sono circa 15.000 all’anno circa il 5% dei processi che vengono celebrati dinanzi ai tribunali.
Ma nessuno ha il coraggio di affrontare questo problema, il parlamento è pieno di avvocati che non hanno interesse a ridurre il contenzioso, i politici hanno paura di essere accusati di scarso garantismo riducendo i casi di appello. E badate bene che nel nostro sistema penale esiste l’istituto della revisione che consente sempre, in ogni tempo, di chiedere la riforma di una sentenza di condanna quando si acquisisca una prova nuova non valutata che si risolutiva per ribaltare l’esito del processo.
Ma questo governo in realtà non vuole affatto risolvere i problemi della giustizia, lo dimostrano l’acrimonia sempre manifestata nei confronti dei giudici, la mancanza di qualsiasi proposta di modifica del sistema che sia realmente rivolta a semplificare le procedure, il tentativo continuo di sottrarsi ai processi. Questo è il governo dell’impunità, che vorrebbe ribaltare il rapporto tra politica e giustizia, abolire lo stato di diritto, sostanzialmente modificare un principio fondamentale della nostra costituzione. È la conseguenza naturale della costituzione materiale che si è stabilita in questo paese dove si legifera ad personam e dove la commistione tra interessi privati e pubblici è diventata il pane quotidiano.
Difficile trovare un compromesso, anzi impossibile. Occorre diffidare delle soluzioni pasticciate. Siamo un paese con una altissima presenza mafiosa e con una elevata propensione all’evasione fiscale, alla corruzione, alla prepotenza. Un cedimento dello stato di diritto significherebbe legittimare queste pratiche da parte dei poteri forti, che hanno una spinta incontenibile ad approfittarne in misura sempre maggiore. Se cederemo saremo condannati a diventare sempre più schiavi e sempre meno cittadini.
Claudio Nunziata - Magistrato in pensione. In qualità di sostituto presso la Procura di Bologna, ha svolto le prime indagini nei tre processi per le stragi che, tra il 1974 ed il 1984, hanno interessato la città di Bologna (treno Italicus, stazione di Bologna, rapido 904). Ha scritto numerosi saggi ed analisi in materia di criminalità economica e storia dell'eversione.