Mordevano i bambini, rubavano il cibo. Il suono incantato del piffero li trascina nel fiume. Favola di un’altra stagione quando gli spiriti cattivi sparivano così. E adesso?
C’era una volta una cittadina della bassa Sassonia, in Germania, in cui, un brutto giorno, migliaia di topi presero a imperversare in lungo e in largo mordendo i bambini e depredando il cibo. Nulla li fermava. Un giorno comparve un misterioso pifferaio che si propose per liberare la città in cambio di un modesto riconoscimento in denaro. Il borgomastro, il sindaco di quei luoghi, accettò. Nulla aveva da perdere. Ebbene il pifferaio, con un suono incantato, si fece seguire dai topi e, ingannandoli, li fece cadere e annegare nel fiume. Tornò in città, per ricevere la sua giusta mercede, ma il borgomastro si rifiutò di pagarlo. Il pifferaio allora impugnò di nuovo il suo strumento e ammaliò tutti i bambini del villaggio che lo seguirono sino ad entrare in una caverna inaccessibile da cui mai e poi mai poterono uscire
Nel dipanare la metafora propria di questo racconto ci si è quasi sempre ridotti al tentativo di identificare le colpe del pifferaio, a torto considerato il “cattivo”, il babau, l’uomo nero.
Tentativo comprensibile di mettere al riparo la coscienza dall’efficacia dirompente della condanna all’hyibris umana che le pagine rivelano.
Se leggerete attentamente, comprenderete facilmente che il pifferaio è una sorta di essere neutro né buono né cattivo. È lo strumento attraverso il quale un cerchio si chiude per sanzionare l’ignavia umana.
Il Pifferaio è il giustiziere implacabile e distaccato, anafettivo, incorruttibile.
È semplicemente e inesorabilmente l’essere, umano o sovraumano, a cui tocca il compito di presentare il conto agli insolventi.
Egli è il tempo, galantuomo nella sua spietatezza, e come sta nella natura del tempo, finisce sempre per livellare le cose, per equilibrare i destini, mostrando, tragicamente quando serve, l’enorme divario di potenza che separa ancora l’uomo e la natura.
Il borgomastro crede di essere più furbo, più forte, più “destro”.
Il suo popolo si rispecchia, indifferente, in questo fantastico sogno, in questa meravigliosa, enormemente, titanicamente miope, proiezione.
Borgomastro e popolo sono la stessa indissolubile figura.
Incapaci entrambi di cogliere lo sfondo, incredibilmente convinti di non avere vincoli che li trascendano, si fanno beffe dell’altro da sé, illudendosi di farla franca.
Se trasferiamo la metafora ai nostri tristi e cupi giorni italici, il gioco è presto fatto.
Berlusconi non è il pifferaio. Volendogli conferire la massima importanza possibile egli può assurgere a borgomastro. Egli è Citizen Kane, niente di meno, niente di più.
È stato eletto democraticamente da un popolo che gli riconosce grande competenza nel non pagare la mercede. Chi lo ha eletto lo ha fatto perché può proiettare su di lui la propria aspirazione a non pagare i conti. Onorare tasse e balzelli, rispettare regole è cosa da evitare: la furbizia, l’astuzia, il gioco di prestigio sono ben più interessanti modi per ottenere vantaggi senza pagarne i costi.
Via i topi dunque: siano essi tasse o immigrati, inquisitori o leggi. Ma una volta allontanati questi flagelli dalle nostre città, ci si guardi bene dal compensare chi ha fatto per noi tutti il lavoro sporco… Quindi bando ai moralismi: i cittadini di Hamelin e il borgomastro sono fatti gli uni per l’altro. E viceversa.
E coloro che non hanno indicato nell’attuale borgomastro l’espressione del proprio volere, escludendo da questo consesso gli appassionati della protesta per la protesta, i professionisti del rammarico, i nobili guastatori?
Certo, questa parte di popolo non ama gli eccessi, è più ragionevole. Ha ancora nel cuore e nel cervello uno spazio per la solidarietà, per il benessere e il benestare collettivo.
Eppure, anch’essa aspira inconsapevolmente, in qualche modo, a non pagare il dazio al pifferaio.
Probabilmente scusandosene, provando senso di colpa laddove invece si esibisce protervia e sicumera. Probabilmente per stanchezza, per disillusione.
Probabilmente perché il prezzo è troppo alto per questi tempi fermi all’attimo e non si ha la forza e la volontà di pagarlo neppure se si comprende quanta importanza abbia.
Il prezzo è pensare alla città futura, quella di là da venire, fra due, tre, dieci generazioni.
Il prezzo è il dover guardare avanti. Più in là del nostro naso. Soprattutto, oltre la nostra morte.
Guardare in là significa non concentrare ogni energia dell’intelletto e delle anime per inventarsi come incrementare il consumo e lo sviluppo ma rovesciare la prospettiva e indirizzarsi a un nuovo modello di convivenza.
Che si potrebbe attestare su livelli di consumo inferiori, per esempio.
Lo sviluppo ci sarebbe comunque : in termini di cultura e socialità. Roba che si mangia con la mente e con lo spirito e che non è quindi solo un affare digestivo, delle viscere.
Vorrebbe dire seguire meno televisione, leggere più libri, parlare di più tra esseri umani. Vorrebbe dire lavorare meno, lavorare tutti, lavorare diversamente. Vorrebbe dire uscire dalla tane e dalle nicchie.
Utopie, insomma. Roba per spiriti belli, per dame d’altri tempi, per cuori teneri.
Non adatta a uomini duri,e a donne dure, che conoscono l’arte maschia del vivere quotidiano e della politica reale. Che maneggiano con maestria (?????) il compromesso. L’inciucio. Che conoscono bene la differenza tra dichiarare e fare, giacché dichiarare e ben più importante ed efficace che fare, in quest’epoca di plastica e dove il verosimile ha espulso il vero, ridicolizzandolo perché retaggio di poeti e giustizieri.
Così, in nome della competenza nel leggere il reale per quello che è, senza fronzoli, poesia e immaginazione, tutti, di destra e di sinistra, sospesi in un presente eterno, ricondotti, pur adulti a bambini inconsapevoli, ci incamminiamo, insieme, verso la caverna, seguendo, incantati, il suono ammaliante del piffero magico.
Per mano con i bambini veri, con i nostri figli, con i nuovi nati, unico ponte fra l’oggi e il domani andiamo verso il nulla.
Meniamo fendenti a caso, mentre ci avviamo al precipizio, di qua e di là, per distrarci dall’abisso che ci aspetta.
Mentre il pifferaio suona lento e implacabile il suo pezzo, noi camminiamo, giorno per giorno, regalandoci a vicenda violenza verbale e fisica come ultras negli stadi. O, talvolta, smancerie poco credibili, melense e insulse, del tutto inattendibili. Stucchevoli e inconsistenti.
Non rendendoci conto che la partita è persa per entrambe le squadre. E, soprattutto, per il vivaio che avrebbe dovuto garantirci gli spettacoli futuri.
Stiamo qui ad alambiccarci su dove erigere il prossimo grande tempio del consumo o la prossima opera d’arte capace di nutrire per un po’ i nostri spiriti fiaccati dal brutto che circonda la nostra vita non già di esseri umani, ma di automobilisti ostaggi delle tangenziali e delle periferie.
Stiamo qui a preparare i mattoni per il prossimo muro.
Intanto il piffero suona mentre si interrompe un meccanismo che da tempo garantiva speranza: i nostri figli non coltivano più l’utopia e non si ribellano di fronte alle ingiustizie anche solo per il gusto di gridarci in faccia la loro migliore gioventù, magari senza troppa convinzione, perché ribellarsi è giusto, a quell’età.
Noi continuiamo così, alla giornata. Anestetizzati, anabolizzanti.
Mentre l’impero declina.