Si fece dell’ironia, quando nell’ottobre 2005 venne arrestato con l’accusa di aver truffato il ministero delle attività produttive. Ma come – si malignava –, dopo un “glorioso” passato ai più alti vertici della finanza nazionale e internazionale, camminando sempre sul crinale del lecito e dell’illecito, si faceva beccare per “soli” dieci milioni di euro? L’ironia, seppur qualche fastidio può averlo creato, non era così sorprendente, dato che si parlava di Leonardo Di Donna, nato a Cosenza il 28 ottobre 1932. Un nome, il suo, che faceva correre il pensiero dei meno smemorati allo scandalo Eni-Petronim, ma non solo.
Iscritto alla loggia massonica P2 (fascicolo 827), Di Donna, craxiano di ferro, entrò all’Ente Nazionale Idrocarburi, l’Eni, tre anni dopo la sua costituzione, nel 1957. Ai tempi di professione faceva il fiscalista e respirava l’aria di iperattivismo che contraddistingueva la società pubblica capitanata da Enrico Mattei. Seppur i giacimenti di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, e di Gela (Caltanissetta) non avessero corrisposto in pieno alle velleità della via italiana alle risorse energetiche, furono altri i settori del boom: dalla rete di distribuzione del metano sul suolo nazionale al fiorire di punti di rifornimento di carburante per i cittadini che, sempre più in massa, potevano permettersi automobili o motociclette. Ma c’era anche l’irruzione delle campagne pubblicitarie, in particolare per l’Agip, e la costruzione dei poli industriali della chimica tanto in Sicilia quanto in Romagna, come accadde a Ravenna.
E poi c’era la politica estera dell’energia, volta a sottrarsi al cartello delle Sette Sorelle del petrolio – tutte di estrazione statunitense, britannica e in parte olandese – che aveva fatto man bassa del mercato e dettava legge in fatto di compravendita del petrolio. Mentre le braccia dell’Eni arrivavano a comprendere anche la stampa, con la fondazione del quotidiano milanese Il Giorno, tentando così di rispondere agli attacchi mediatici di Confindustria provenienti dalle colonne del Sole 24 Ore, Mattei cercava l’indipendenza, nel ciclo italiano del petrolio, trattando direttamente con i Paesi produttori. Ma a Bascapé, in provincia di Pavia, il 27 ottobre 1962 il suo aereo privato atterrò a pezzi (per un incidente, si disse nell’immediato, ma si accertò 35 anni dopo a causa di 150 grammi di tritolo) e altrettanto a pezzi si conclusero vita e strategia del manager dell’Eni.
La morte di Enrico Mattei non stoppò però la carriera di Leonardo Di Donna all’interno dell’ente. Prima ne divenne direttore finanziario e poi vicepresidente. Ma una delle qualifiche che più lo caratterizzarono non coincideva con i ruoli aziendali: di lui, sul finire dei Settanta e negli anni successivi, si disse che era un “incorruttibile corruttore” e che i più efficaci meccanismi di finanziamento illecito ai partiti erano anche merito suo. E torniamo al discorso Eni-Petronim.
Dal contratto con gli arabi al Conto Protezione
Siamo in periodo di piena malversazione piduistica e Giorgio Mazzanti, presidente dell’ente e iscritto alla loggia di Gelli (fascicolo 826), sigla un contratto con l’Arabia Saudita per una consistente fornitura di petrolio. Questo il lato raccontabile della storia. Il non raccontabile, invece, ci parla innanzitutto di correnti di partito: Mazzanti era un uomo della corrente lombardiana del Psi allora guidata da Claudio Signorile e Fabrizio Cicchitto (oggi capogruppo in parlamento del Popolo delle libertà e ai tempi tesserato P2, fascicolo 945). E ci parla del lato oscuro del contratto: una tangente da 200 milioni di dollari (del tempo) con cui finanziare l’ala della sinistra socialista e della corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Con essa si voleva ungere anche la stampa – in periodi in cui il Corriere della Sera era ormai nelle mani del trio massonico Gelli-Umberto Ortolani-Bruno Tassan Din – perché, dopo le elezioni del 1979, andava sostenuta la creazione di un governo di solidarietà nazionale.
Ma il presidente dell’Eni fece un errore. Anzi, due. Innanzitutto tenne nascosti gli accordi sotto banco a Di Donna. E, in conseguenza, si fece scoprire da quest’ultimo. Che andò a riferire al segretario del partito socialista, Bettino Craxi. Il quale, nell’audizione dell’8 febbraio 1984, disse alla commissione costituita sull’affaire P2: «Quando noi sollevammo la questione Eni-Petronim […] un attacco forsennato ci veniva da tutte le parti […]. Chi nell’ambito dell’establishment – che sembrava osservare le regole dell’omertà e della complicità – tenne una posizione ferma a sostegno della verità fu un dirigente dell’Eni che si chiamava Di Donna. Il segretario del Psi non fu rovesciato, il contratto andò in cavalleria, la tangente di centinaia di miliari [di lire] andò a finire in fondo al mare e noi mantenemmo nei confronti di Di Donna un atteggiamento di riconoscenza per la fermezza con la quale tenne quella posizione».
Con il senno del poi, le parole di Craxi possono suscitare un’ironia analoga a quella citata in apertura. Perché il leader socialista aveva anche ben altri motivi per blandire il suo uomo all’Eni. I motivi si possono riassumere con un’espressione: “Conto Protezione”, quello che per la svizzera Ubs corrispondeva al numero 633369 e che per la giustizia faceva da trait d’union con un’altra bruttissima storia: la storia – o un pezzo di essa – del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Quando si parla di Conto Protezione, si devono infatti visualizzare 167,5 milioni di dollari e si deve riportare in causa un altro personaggio già incontrato in queste pagine, Florio Fiorini.
La coppia Di Donna-Fiorini – insieme ad altri cinque personaggi ascrivibili ad altrettante realtà finanziarie, tanto che venivano chiamati all’epoca la “banda dei sette” – progettò e mise in piedi un sistema che, basandosi sulle speculazioni valutarie, permetteva di generare flussi di denaro che, in operazioni estero su estero, andavano a rimpinguare le brame corruttive della dirigenza politica socialista (ma non solo). Il sistema poteva contare anche sul fatto che amici compiacenti di Bankitalia chiudevano un occhio. Al massimo, c’era chi – come il “dottor Koch”, che Fiorini indicò in Cesare Geronzi – richiamava alla moderazione perché il gioco giocato era sempre più disinvolto e ingordo. Ma «eravamo tollerati», aggiunse Fiorini a Repubblica, perché «capitava […] di quando in quando di dare una mano».
La fine di un sistema e i fronti successivi
La fine anche di quel gioco giunse però con la scoperta degli elenchi della P2 custoditi da Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, e con l’omicidio di Roberto Calvi (per quanto si disse che il presidente del Banco Ambrosiano si era suicidato, impiccandosi sotto il ponte dei Frati Neri di Londra il 18 giugno 1982) a cui fece seguito la messa in liquidazione dell’istituto di credito. «Al momento della famosa annotazione di Gelli sul Conto Protezione, cui era seguito un avviso di garanzia a lui e a me, avevo avuto una lite furibonda con Di Donna, che si era messo in operazioni del cazzo. Per di più, ne avevano informato i loro amici di grembiulino». Insomma, Di Donna, per star dietro alle richieste sempre più esose dei suoi sodali di partito, aveva fatto saltare un meccanismo «a prova di bomba, dal Libano alla Svizzera» che per tre lustri aveva foraggiato per vie occulte la vita politica ed economica italiana.
Ancora oggi ci sono fronti aperti legati al Conto Protezione. Non meno di un paio d’anni fa sono stati messi all’asta alcuni beni, tra arredi e opere d’arte, appartenuti all’architetto milanese Silvano Larini, altro fedelissimo di Bettino Craxi al punto da essere colui che operava con il denaro transitato dalla Ubs. Da quella vendita è stata ricavata una quarantina di migliaia di euro, diventati pallidi risarcimenti per chi si vide bruciare fondi e risparmi dal crac della banda di Calvi. E il collegamento Larini-Craxi-Gelli ruotò anche intorno a un prestito da ventuno milioni di dollari per Craxi. Il denaro proveniva dal Banco Ambrosiano, transitò sul Conto Protezione e lo stesso gran maestro della P2 sollecitò la restituzione. Indietro però ne tornarono solo sette e, passata la bufera scatenata con la scoperta della loggia di Gelli, ognuno riprese la propria strada.
Quella di Fiorini l’abbiamo già raccontata. Leonardo Di Donna, malgrado le pressioni craxiane, si vide sfuggire la presidenza dell’Eni perché Sandro Pertini disse che «mai cariche pubbliche [sarebbero andate] a chi è implicato nella P2» (ma la storia successiva insegna che così non andò). Allora ripiegò, Di Donna. Approdato alla Snam Progetti fin dal 1969, entrò a far parte del management dell’Acqua Marcia, sospettata di aver avuto un ruolo nell’affare Eni-Petronim e poi ritenuta estranea ai fatti. Rimase comunque una realtà societaria che proveniva dagli anni delle scalate sindoniane e che in seguito entrerà nell’orbita della holding targata Caltagirone vivendo un travagliato percorso per la sua acquisizione e per la sua collocazione in borsa.
Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet,
cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non
necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)