Prima di morire, Josè Saramago lascia una domanda: perché nessuno chiede perdono? Forse perché immersi in un cinismo sincero. Forse perché conviene lasciar correre il dolore del quale siamo responsabili e non farsi carico della sofferenza degli altri per osservarla col distacco di un impresario delle pompe funebri: in fondo non è lui l’assassino, limbo dove si rifugiano i protagonisti ai quali abbiamo concesso di amministrare la nostra vita. Si può raccogliere il coraggio per ammettere errori lontani, ma l’umiliazione del perdono diventa insopportabile a chi vive in un posto bene illuminato. Anche la Chiesa si rassegna al perdono con secoli di ritardo – Galileo, Giordano Bruno – quando non è costretta ad umiliarsi davanti alle vittime della pedofilia.
E i politici? Non se ne parla. Non importa se portatori di speranza. Obama ritira i marines dall’Iraq e condanna l’imprudenza della guerra di Bush, ma non una parola su donne e bambini, 178 mila innocenti (i numeri delle organizzazioni umanitarie li raddoppiano) bruciati per strada, o mentre dormono, o fra i banchi di scuola, non sempre per caso. Gli elettori della grande potenza non capirebbero. La Casa Bianca val bene il silenzio. La dignità del potere impone l’indifferenza che ne tutela la maestà. Anche se l’orgoglio ingrigisce, proibito sfiorarlo.
Fidel Castro si rammarica di quando dava la caccia ai gay. «Ho sbagliato ma il ’62 era, anno difficile…»: invasione della Baia dei Porci e poi i missili russi che minacciavano la terza guerra mondiale. «È mancato il tempo di riflettere». Ci ripensa appena Mosca scappa e i suoi ordini non valgono più. Nel trauma del periodo speciale, l’Avana fa subito un film, «Fragole e cioccolato»: tutti, ma proprio tutti i cubani, lo vedono e lo rivedono, risate amare. Eppure Castro, nell’anticamera degli addii, non trova il coraggio di chiedere perdono almeno alla vittima simbolo della mostruosità: Reinaldo Arenas, svergognato perché omosessuale, quindi controrivoluzionario da chiudere nei campi dell’Unità Militare di Sostegno alla Produzione. Bastonato, torturato: perde il posto da bibliotecario, espulso dall’associazione scrittori che nel 1967 applaudivano la rivelazione «Celestino prima dell’alba».
A comando dimenticano gli abbracci al narratore che sconvolge la logica della tradizione sul filo del surrealismo. Nel secondo libro Arenas perde il rispetto. Racconta l’ inferno dell’ essere diverso in quell’isola di maschi: «Mondo allucinante» respinto dalla censura. Lo fa scivolare in Messico, oltraggio aggravato dal premio Medici, luci di Parigi. Dove non può andare; non godrà l’onore e il benessere che accarezzava sotto i reticolati. Nel 1980 lo imbarcano sulla nave delle immondizie umane: dal porto di Mariel arriva a Miami e scopre che se Cuba è il purgatorio, gli Stati Uniti sono l’inferno. Si ammala a New York, povertà disperata del West Side. Sceglie di morire.
Se è comodo raccontare di Castro amato e odiato senza sfumature da tre generazioni che abitano l’altra parte del mare, è complicato scegliere dalla nostra parte chi dovrebbe invocare perdono. Chissà se il ministro Maroni un giorno chiederà perdono ai profughi eritrei che i suoi respingimenti impacchettano nel deserto dove Gheddafi li scioglie al sole. Fini si accorge della iniquità della legge elettorale sostenuta con calore nel momento della convenienza. Adesso si scusa: «Sono pentito».
Calisto Tanzi chiede perdono a migliaia di risparmiatori ridotti al lastrico dalla spensieratezza della sua finanza d’avventura, ma Berlusconi continua a tacere. I miliardi e le tv, i cortigiani a noleggio nei giornali e in parlamento, non sopporterebbero il tracollo. Rassegnarsi al perdono vuol dire perdere i violini di corte, aprire dubbi su conti in banca oscuri, catastrofe che le ombre fedeli non possono sopportare e lui non sopporta di restare solo. Tace, aspettando il miracolo di chissà quale redenzione: chi non trova l’orgoglio dell’umiliarsi non l’ avrà mai, ultima parola di Saramago il quale non credeva regno dei cieli ma nella dignità morale sì.