Kamta (nome che vuol dire ventre) è seduta a terra dolorante. Appoggia la schiena al muro della chiesa di Moissala, in fondo al Ciad. Il ventre gonfio indica che la gravidanza è agli sgoccioli. Le doglie stanno per cominciare e per un attimo le fanno dimenticare il sogno che ogni ragazza vive sulla sua pelle fin da piccola: mettere al mondo! L’unica vera grande industria del Ciad. Che se continua così passerà dagli attuali 11 milioni ai 27 nel 2050. Kamta soffre; non sorride come quando da piccola la mamma le massaggiava il ventre (il suo nome!) come presagio di quello che le sarebbe toccato in futuro. Qui la sterilità è vista davvero male e in tali casi le donne possono essere rifiutate dai mariti e restituite alla famiglia.
In questa società patriarcale e maschilista alla gente non sfiora l’idea che lo sterile possa essere il maschio. Kamta la sera prima ha fatto 16 chilometri a piedi per arrivare a Moissala all’incontro di preparazione al battesimo. Il suo battesimo. Dopo 4 anni di preparazione non vuole mancare all’ appuntamento. Ma la natura non si controlla. Al fianco un figlio piccolo e il marito che aspettano con gioia il terzo pargolo. Kamta è ancora fuori classifica rispetto alla media del paese: 5,27 figli per donna. Una piccola borsa è tutto quello che ha con sé. Mi chiamano e corro: la accompagniamo all’ospedale. Il respiro arranca e non dice una parola. In maternità ci pregano di tornare la sera perché la bambina non nascerà subito. Chissà quale numero sarà dell’Africa che ha già superato il miliardo di persone. Poco importa di fronte alla gioia di una nuova vita che nasce.
La mamma ha perso molto sangue e alla sera, quando arriviamo, è stremata, un lenzuolo la ricopre. Non ha la forza per sorridere o far capire la felicità.. Il marito e gli amici le hanno portato da mangiare e sono corsi al fiume per lavarle l’unico vestito inzuppato di sangue. La piccola Charlotte dorme: abbiamo scelto assieme il nome, è il 4 Novembre, san Carlo. Piccolissima, pesa meno di un chilo e mezzo. Al mattino sembrano più in forma. Il tempo di prendere le medicine e via di nuovo alla parrocchia per riposare. Il motore dell’Africa riparte.
Margherita mi aspetta sempre con gioia. Sorride: ha una voce squillante, la riconosci da lontano. Riconosci.. Non cammina da quattro anni quando una brutta malattia l’ha stesa a letto e le ha portato via due figli. È diventata grossa, goffa, così ridotta dalla mancanza di movimenti. Mi accoglie a seni nudi, senza il minimo problema, ci sediamo e parliamo. Si veste con calma e naturalezza. Mi offre un po’ d’acqua come si fa secondo tradizione a chi viene in visita. Chiede sempre di confessarsi e di ricevere la comunione. Preghiamo per chiedere al Dio della vita la forza per andare avanti soprattutto quando è terribilmente dura. Poi parliamo in lingua locale della famiglia e della gente del villaggio a Moissala.
Arriva sua madre, anziana e magrissima. Mi prende per mano e con passi aiutati da un bastone mi conduce alla sua capanna. Le capanne da queste parti sono rotonde costruite con mattoni cotti al sole e tetto in paglia da rinnovare ogni 3-4 anni perché pioggia e termiti si dividono il lavoro per distruggerla. All’interno, in alto, dei fili attraversano l’unica stanza: vesti appesii. Il letto, quando c’è, è duro, appena rialzato da terra. Ai suoi piedi le scarpe, una lampada, qualche quaderno. Le zanzariere sono ancora rare e nella stagione delle piogge si rischia di essere bersagliati. Il bagno non esiste quasi mai: in rari casi ho trovato un luogo adibito a bagno con un buco nella terra e la paglia attorno per allontanare gli sguardi. La gente è ormai abituata a fare due passi dietro casa per liberarsi nel prato. Non esiste vergogna nel calarsi i pantaloni e la gonna anche in luoghi dove tutti passando e guardano. Qualcuno saluta mentre è accucciato echi, senza averlo visto, gli è passato a fianco. All’ entrata della capanna dà il benvenuto una porta in lamiera (spazio per gli spifferi d’aria) chiusa con un lucchetto per evitare che qualcuno approfitti dell’assenza. Ebbene, la mamma di Margherita mi mostra il tetto aperto. Un buco nella paglia minaccia la sua sicurezza. Ci mettiamo d’accordo con i giovani del quartiere per rimettere in sesto tetto e ridare serenità della nostro piccolo-grande motore.
Mamma Tibir non è in casa quando la mia a da lei a Dilingala. Vanno a chiamarla, invitano a sedermi. Arriva e si accuccia a terra. Le chiedo come ha potuto praticare l’escissione (mutilazione genitale femminile) a tante giovani fanciulle: taglio totale o parziale degli organi genitali esterni delle ragazzine. Resta un attimo in silenzio. Con gli occhi bassi e voce sommessa spiega d’essere c vedova e per avere qualche soldo ha accettato la proposta. È stata la disperazione a spingerla. Ma è già pentita: chiede perdono e a Dio. Promette che non partirà più in campagna con forbici e coltello. Le credo. La saluto affettuosamente, riparto. Perché non darle fiducia e credere nel cambiamento della persona? Perché il motore dell’Africa non dovrebbe ripartire?
Ngojo è distesa su una stuoia di vimini nella sua capanna del villaggio di Bekourou. Si alza con fatica. Non si respira. Il fumo della pentola su cui cuoce la “bouillie” (bevanda preparata con manioca e arachidi) prende gli occhi e la gola. Il rischio di incendiare la capanna con un movimento brusco o di versarsi l’acqua bollente sé ikl pericolo della sua triste realtà. Ammalata da anni sembra un po’ abbandonata. Siamo ormai lontani dalla sana tradizione dell’ascolto e del rispetto verso gli anziani, saggi per eccellenza. Non esistono ormai le serate attorno al fuoco ad ascoltare “storie di vita” e i consigli dei nonni. L’Africa sta perdendo le sue più belle abitudini e si abbandona ai venti di modernità: mode inutili e fuori luogo, vuote illusioni. Possibile che nessuno le prepari da mangiare fuori dalla capanna? Possibile che nessuno si prenda cura di lei? Sembra che gli anziani siano divenuti un peso per i giovani ad aspttarne partenza, la morte.
Fatima è cieca, vive a Tetindaya. Scheletrica mi accoglie sulla sua stuoia. Sempre sotto il grande albero, con un minimo di cuscino e una brocca d’acqua al fianco. A Tetindaya e in ogni villaggio si vive sempre all’aperto, a parte nelle sere di dicembre e gennaio, quando fa fresco. Ha voglia di parlare. Chiede la confessione e l’unzione dei malati. Prega per essere forte sulla strada del p tramonto. Lei che camminava a più non posso con i piccoli sulla schiena e il pentolone pieno di farina in testa. Lei che non contava chilometri e non risparmiava fatiche perché aveva altro a cui pensare: la sopravvivenza sua e dei suoi piccoli.
Storie di vite sofferte, sudate, che riconosci dalle mani e dai piedi consumati. Storie passate attraverso fatiche terribili e anche errori. Comunque da premio Nobel (per la resistenza più che per la pace). Quello proposto per il 2011 alle donne africane dal CIPSI, coordinamento di 48 associazioni di solidarietà internazionale, e da “ChiAma l’Africa”. Al lloro posto è stata preferita la neo-rieletta (con il 90% dei voti, benché solo il 37% si siano recati alle urne nel secondo turno) alla presidenza della Liberia, Ellen Johnson-Sirleaf. Unica donna presidente in Africa. Un simbolo e un punto di riferimento per i motori africani. Che non consumano benzina o gasolio ma sudore, fatica e vesciche ai piedi. Motori che camminano finche ne hanno la florza, camminano quando non si reggono in piedi e non ce la fanno più. Motori: a due gambe. Per costruire il presente dell’Africa che prova a rimettersi in piedi. Nonostante tutto guardano con fiducia l’avvenire.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.