Sui documenti internazionali è abolita da un pezzo. Ma sono proclami ed obiettivi che si fanno a tavolino dai “Grandi”. La realtà è un’altra e la tratta degli schiavi non è mai terminata. Alla faccia di tutti i diritti umani evocati e sottoscritti da molti ma difesi e rispettati da pochi. In Ciad molti bambini, troppi, non vanno a scuola per occuparsi del bestiame e mungere le mucche. Sono gli “enfants bouviers”, dei bambini allevatori, cioè piccoli schiavi; fenomeno ormai diffuso che è diventato una delle piaghe di questo paese. Un vero e proprio commercio da parte dei proprietari di buoi che con un misero salario mensile di 3000 – 6000 franchi CFA (4-8 euro) affidano le loro mandrie a piccoli innocenti con il bastone in mano. Lasciano presto la famiglia, la loro terra e si avventurano in “brousse”, nelle boscaglie. Spesso soli e maltrattati. I contratti sono per 6 mesi ma molti non ritornano più. Diversi muoiono nei boschi. Mentre nella capitale N’Djamena giovanissime ragazzine originarie del Sud si mettono al soldo dei ricchi commercianti arabi del Nord. Sottopagate, maltrattate, costrette a lavorare giorno e notte nelle loro case per un niente. Alcune violentate. Insomma schiave.
Cotonou, capitale del Benin, è il cuore del traffico dei bambini in Africa. Nel mercato di Antokba, più di un migliaio di bambine, girano tutto il giorno con il vassoio in testa alla ricerca di clienti che comprino qualcosina da mangiare. Ma il luogo è duro, aggressivo e la gente le minaccia, le insulta e a volte ruba pure la loro merce. Se rientrano dalla padrona senza consegnare tutto il denaro della vendita sono picchiate a sangue. In cambio, se tutto va bene, ricevono il pasto del giorno. Niente di più. Giusto quello che serve per tenerle in piedi. Niente soldi in mano o possibilità di studiare. Infanzia e scuola sono già state rubate. Insomma schiave.
Come schiavi sono i bambini rapiti e arruolati come soldati per combattere. Dal Sudan al Centrafrica, dalla Repubblica Democratica del Congo al Ciad, dall’Uganda fino alla Somalia. In quest’ultima il reclutamento forzato dei fanciulli è sistematico, soprattutto da parte dei guerriglieri di Al Shabaab che avrebbero rapito recentemente duemila piccoli per inviarli sui campi di battaglia del sud del Paese, dopo aver seguito un periodo di addestramento. Lo stesso avviene per le femmine. Anche se il reclutamento delle bambine è considerato inaccettabile sul piano sociale, le ragazzine sarebbero utilizzate come cuoche, ma anche per trasportare detonatori e raccogliere informazioni.
Non solo bambini. Interi Stati schiavi della colonizzazione antica e sempre nuova da parte delle grandi potenze occidentali che alimentano conflitti e strategie geopolitiche per continuare a rubare indisturbati petrolio, rame, zinco, uranio, oro, diamanti, coltan, fosfati e prodotti agricoli. Hanno cominciato perfino con l’accaparrarsi le terre. Poi gli uomini. Tra gli schiavi i minatori di oro in Rd Congo e dei diamanti in Sudafrica, sottopagati e sfruttati. Lavori forzati e disumani. Quindi le donne. Costrette ad alimentare la tratta di prostituzione che dalla Nigeria finisce per le strade di Castelvolturno, nel sud Italia. E in tutt’Europa. Fenomeni che cambiano lungo la storia nei connotati e nella forma ma non nell’identità.
La tratta degli schiavi, nota anche come tratta atlantica o in inglese Slave Trade, è un fenomeno di portata epocale che ha avuto luogo a partire dal XV secolo per un periodo di circa 450 anni, e che ha visto coinvolte Europa, Africa occidentale e colonie americane nella cattura, deportazione e schiavizzazione di milioni di africani. Il numero complessivo delle vittime si stima tra gli 11 e i 15 milioni, senza contare le persone morte durante il trasporto oceanico. Un traffico di schiavi analogo, che va sotto il nome di tratta orientale, vide più o meno nello stesso periodo milioni di altri africani trasportati forzatamente da mercanti arabi lungo le rotte transahariane e poi oltre il Mar Rosso, oppure via nave attraverso l’Oceano Indiano per l’India e talvolta la Cina.
Questo traffico ha un’origine più antica di quello atlantico, essendo iniziato con l’espansione dell’Islam nel VII secolo. I dati riguardo alla tratta orientale sono più incerti per mancanza di fonti scritte, ma le stime parlano di 12.450.000 persone tra il VII e il XX secolo. All’interno del continente africano esisteva anche un terzo tipo di schiavitù, cosiddetta tratta interna, presente come istituzione sociale nei grandi imperi dell’Africa equatoriale occidentale del XV secolo, che accrebbe considerevolmente in concomitanza della tratta atlantica, raggiungendo l’apice dopo il 1850 e perdurando fino alla prima guerra mondiale.
Gli storici dibattono sulle similitudini, differenze e interrelazioni tra questi tre tipi di tratta. La tratta orientale e quella atlantica presentano un diverso grado di integrazione con la realtà sociale e politica africana. Mentre i mercanti arabi si spingono nell’entroterra, stringono alleanze con i poteri locali e fondano domini territoriali diretti, l’approccio degli europei nel periodo precoloniale si ferma al livello economico. La tratta orientale va inoltre ad alimentare una “servitù domestica”, simile a quella riscontrabile in seno alle società africane, piuttosto che uno sfruttamento intensivo di manodopera come avviene oltreoceano. La maggior parte degli schiavi nel mondo arabo sono eunuchi messi a custodia degli harem, possono aspirare a rivestire ruoli amministrativi e avere possibilità di riscatto. Talvolta anche i confini etnici tra arabi e africani si vanno a perdere, come nel caso in cui gli schiavi vengano adottati dai padroni. L’antropologo Claude Meillassoux2 evidenzia come la tratta interna si differenzi qualitativamente da quella atlantica: nella prima lo schiavo mantiene comunque una sua identità sociale, nonostante sia quella del ceto più basso, mentre nelle colonie americane risulta completamente alienato e mercificato.
I primi europei a catturare schiavi sono i portoghesi nel XV secolo, con lo scopo iniziale di barattarli con l’oro della savana sulla Costa d’Oro; per avere basi d’appoggio fondarono fortezze lungo la costa, le quali godevano di uno status extraterritoriale per il quale i sovrani africani si facevano corrispondere un lauto compenso. Di qui il passo fu breve all’utilizzo degli schiavi come manodopera per il proprio fabbisogno e al loro trasporto in Europa. Con la colonizzazione del Nuovo Mondo e l’instaurazione di sistemi di piantagione, gli schiavi africani risultarono inoltre particolarmente adatti a lavorare nelle zone equatoriali del Sudamerica, a differenza degli indigeni, stremati dalle malattie portate dagli europei. I primi schiavi in America furono portati dagli spagnoli nel 1503: nel secolo successivo la tratta si sviluppò come un sistema consolidato e lucrativo, con al vertice la Gran Bretagna.
Sempre lo zampino degli occidentali. Ma anche gli africani hanno imparato bene il mestiere più antico del mondo di sfruttare gli altri. Basti pensare alla Liberia che deve il suo nome al tentativo, su invito degli Stati Uniti, di reinsediare gli schiavi liberati a seguito dell’abolizione della schiavitù sul continente americano. E questi cosa hanno combinato? Sono finiti per sfruttare a loro volta le popolazioni locali agendo in connessione con gli interessi del mercato internazionale e soprattutto degli stessi Stati Uniti.
Forse è davvero cambiato qualcosa oggi nella sostanza? La dignità degli uomini e delle donne ha fatto passi in avanti nella coscienza collettiva, nella vita quotidiana e nei fatti concreti? La risposta è a tutti noi. Non a parole ma con il nostro impegno e la nostra vita per la libertà degli schiavi di ogni colore, paese, età, sesso e religione. E di ogni tempo. L’unica buona notizia dentro un marasma di informazioni che tende a farci credere che è sempre stato così, che non c’è niente da fare, che dobbiamo rassegnarci.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.