Mentre tutti siamo concentrati sul debito americano, le Borse che cadono, le beghe squallide della politica italiana, l’esodo estivo imminente e la Norvegia sotto shock, in Africa si muore. Pochissimi ne parlano ma si rischia una tragedia umanitaria pazzesca se non si interviene in tempo. Anzi è già in corso: oltre 10 milioni di persone stanno lottando per la vita e rischiando la pelle. 3 in Somalia, 4 in Etiopia, 3,5 in Kenya. Decine di migliaia sono già morti per fame e molti sono allo stremo.
Notizia da sedicesima pagina nel “Corriere della Sera” (del sabato 23 luglio seguita da silenzi paurosi, o quasi, i giorni successivi), con tanto di foto drammatiche di bambini che invocano cibo al fianco delle improponibili foto della solita impeccabile e bella donna che pubblicizza una crema per pelli toniche e di due macchinoni in superofferta per le vacanze. Contrasti stratosferici ed estremi abissali di un mondo impazzito e smarrito.
Nel Corno d’Africa, in una vasta regione che coinvolge soprattutto la Somalia, ma anche Etiopia, Kenya e Gibuti è corsa al cibo. Una corsa che a volte lascia per strada i più deboli, quelli che non riescono ad arrivare ai campi profughi, e divide le famiglie. I papà e le mamme perdono i bambini stretti dalla fame e dalla sete. In certi casi sono costretti a salvare i più robusti e a lasciare i più deboli. In molti, stremati, si fanno chilometri e chilometri a piedi per sfuggire alla peggiore carestia degli ultimi 60 anni in una zona africana da sempre particolarmente a rischio. Nelle regioni di Bakool e Basso Shabelle, in Somalia, il 20 luglio scorso l’Onu ha dichiarato la carestia, cioè il livello più alto dell’emergenza alimentare.
Non piove da più di un anno e i terreni sono andati persi. Così i capi di bestiame. Mentre gli ultimi aiuti alimentari del governo sono arrivati tre mesi fa. Una serie di concause aggrava la situazione: l’aumento dei prezzi dei beni alimentari su larga scala cha hanno reso troppo costose anche le poche provviste a disposizione, una guerra somala ventennale che ha creato una delle maggiori popolazioni di profughi del mondo, la vendita di intere regioni alle multinazionali e Stati stranieri in Etiopia, la presenza di milizie insorte antigovernative, gli Shebab, che controllano il centro sud della Somalia. Gruppo islamista che, vuole rovesciare il governo federale di transizione (Tfg) e che fino ad ora aveva ostacolato gli aiuti umanitari. Fintanto che, per evitare la fuoriuscita del popolo, ha cominciato ad aprire le porte.
All’ultimo vertice della Fao del 25 luglio i rappresentanti di tutti i paesi del mondo, delle agenzie umanitarie e delle ong, hanno scelto di intervenire, sull’onda dell’allarme lanciato da qualche media. Ma gli aiuti promessi non arrivano sempre tutti e neppure tutti a destinazione. Anzi! Molti interventi sono destinati all’emergenza e altri, gli interventi strutturali, diretti a sostenere l’agricoltura. Sono urgenti corridoi umanitari per raggiungere con gli aiuti le zone più isolate. Poi tanto di promesse di maggiori investimenti nell’agricoltura in Africa, accesso garantito all’acqua, regolazione dei mercati agricoli per contrastare la volatilità dei prezzi dei beni di prima necessità.
Ma poi tutti, scampato il pericolo, si dimenticano in fretta, nell’unica vera gara dell’ipocrisia collettiva. Si prendono in esame solo le situazioni funzionali agli interessi esterni di chi approfitta e ruba. Altrimenti, se si tratta di drammi interni, si dimentica in fretta. Così come gli italiani si sono presto dimenticati della “loro” colonia somala e delle sue tragedie. Ma hanno ben chiaro lo sfruttamento al tempo coloniale finché faceva comodo e pure dopo quando la Somalia risultava terra fertile per ospitare i rifiuti tossici delle nostre industrie e le armi per alimentare gli infiniti conflitti interni. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 21 marzo 1994, ne sanno qualcosa.
Intanto a Dobley, in terra somala al confine con il Kenya, arrivano più di mille persone al giorno. Sono soprattutto donne e bambini: gli uomini in gran parte restano a sorvegliare quel che resta del bestiame o a combattere nella guerra civile. Nell’ultimo mese sono arrivate più di 20.000 persone, a piedi o in camion. E’ l’ultima tappa per uscire dalla Somalia e dirigersi in Kenya nel campo profughi più grande del mondo: Dadaab. La guerra intestina sta dilaniando la Somalia da 20 anni e il campo è stato allestito nel 1991 per ospitare 90mila profughi.
Oggi sono 380 mila dentro e 40 mila fuori del suo perimetro e quindi fuori dalla giurisdizione e del controllo delle Nazioni Unite. Fuori da tutto. Dai servizi di base soprattutto. Solo mezzo litro d’acqua a persona, contro i 3 di chi è dentro con la media di 48 rubinetti per 20mila persone. Così le malattie dilagano. Dentro e fuori. Intanto la registrazione risulta difficile e lunghissima. Code interminabili di persone affamate e assetate attendono di avere il via libera al cibo, all’acqua e alle cure mediche. L’attesa può durare anche alcuni giorni.
Non solo persone umane. Anche la terra attende con ansia la pioggia. E intanto adesso sta cominciando a cadere, anche se ancora lenta e timidamente. Quella che invece non si arrende mai, e l’Africa lo sa bene e lo insegna al mondo, è la speranza, rinnovata, tenace e coraggiosa di continuare, nonostante tutto, a lottare, resistere e danzare la vita.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.