Tripoli – A vedere il pallore sui loro volti, dev’essere stato veramente un brutto quarto d’ora quello vissuto sabato 21 maggio da tre colleghi della stampa internazionale – due britannici della Reuters e l’inviata cinese di una tv di Honk Kong – aggrediti da una folla di libici inferociti e armati di pistole e coltelli. I tre viaggiavano a bordo di una navetta governativa che li stava accompagnando al confine tunisino di Ras Jdir, da dove sarebbero poi rientrati in patria.
E invece, a Zuara, un piccolo centro a un centinaio di chilometri ad ovest di Tripoli, il bus si è dovuto fermare, bloccato da una lunga fila davanti a un distributore di benzina. Subito è scattata l’aggressione, in segno di protesta contro i bombardamenti della Nato e contro la penuria di carburante. La folla – un centinaio di persone – ha prima cercato di rovesciare il veicolo e poi di salire a bordo, a caccia – hanno riferito i colleghi – di giornalisti francesi. All’inviata cinese è stato puntato senza tanti complimenti un coltello alla gola. E solo l’intervento della polizia, che ha dovuto sparare in aria, ha permesso di evitare il peggio.
Si tratta in ogni caso di un segnale che le condizioni di sicurezza per la stampa internazionale stanno peggiorando qui in Libia. Per ora sono 4 i giornalisti stranieri uccisi dall’inizio della guerra civile: il primo è stato il cameramen qatarese di Al Jazeera, Ali Hassan Al Jaber, ucciso a Bengasi il 12 marzo; a Misurata, invece, il 20 aprile, sono stati uccisi il fotografo britannico Tim Hetherington e il suo collega americano Chris Hondros; qualche giorno fa, infine, si è avuta conferma della morte del fotografo austro-sudafricano Anton Hammerl, disperso dal 4 aprile.
Il caso di Hammerl, inoltre – come giustamente ha denunciato “Reporter Sans Frontières” – suscita non poche perplessità. In più occasioni, infatti, il governo libico aveva lasciato intendere che il collega era vivo e che si stavano trattando le condizioni per un suo prossimo rilascio. Invece, è arrivata la notizia della sua morte, su cui però le autorità di Tripoli negano di avere alcuna responsabilità.
Una posizione un po’ ambigua, che non può destare preoccupazione se si considera che ci sono ancora diversi giornalisti nelle carceri libiche: il Commettee to Protect Journalists ha denunciato nei giorni scorsi 50 arresti, fra giornalisti libici e stranieri, molti dei quali sono finiti in carcere per il semplice fatto di essere entrati in Libia senza un regolare visto del governo. A tutto ciò si aggiungono le difficili condizioni di lavoro qui a Tripoli, dove noi della stampa straniera siamo di fatto confinati in un hotel, sotto stretta sorveglianza, e dobbiamo fare i salti mortali per poter fare il nostro mestiere.
Il governo libico continua a scusarsi con noi, adducendo come scusanti sia l’eccezionalità della situazione che l’impreparazione dei suoi “angeli custodi”. In verità, al solo pensiero di avere dei giornalisti stranieri che circolano liberamente per la città questa gente rischia di svenire dalla paura.
Amedeo Ricucci, giornalista Rai. Da 20 anni inviato di guerra. Collabora a "Giornalisti senza Bavaglio".