Da quando è iniziata l’epidemia di colera ad Haiti, il 19 ottobre, il paese dimenticato ha di nuovo avuto qualche articolo sul giornale o qualche servizio in radio e Tv. La malattia delle «mani sporche» è giunta dall’acqua inquinata del fiume Artibonite, il maggiore del paese. Una malattia «importata», in quanto sconosciuta sull’isola, fino a poche settimane fa. Gli haitiani hanno subito accusato il contingente nepalese dei caschi blu dell’Onu, di stanza a Mirebalais, sul fiume, molto più a monte delle zone più colpite.
Il contingente si è installato tra l8 e il 15 ottobre e avrebbe riversato deiezioni umane nell’Artibonite. La Minustah (Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione di Haiti, presente nel paese dal marzo 2004) ha avviato un’inchiesta, che non ha, ad oggi, portato alcun risultato (e difficilmente ne porterà). Intanto il Centro di controllo malattie e prevenzione, basato ad Altanta (Usa) ha identificato il vibrione del colera (batterio) come di origine sud asiatica. Ma sarà impossibile stabilire l’origine dell’epidemia.
Ad oggi la malattia, che si può debellare con norme igieniche e di comportamento e l’utilizzo del cloro nell’acqua, ha fatto 330 morti e infettato 4.000 persone. Il rischio è che si propaghi rapidamente in una situazione come quella di Port-au-Prince, la capitale, dove a causa del sisma, oltre un milione di persone vivono ancoro sotto tende e ripari di fortuna. La stagione, quella degli uragani e delle frequenti piogge, facilita la diffusione del contagio. Una ventina di organizzazioni internazionali sono intervenute per fermare l’avanzata del batterio.
«Ricostruzione» bloccata
Ma, senza nulla togliere all’emergenza colera, è sul fronte della ricostruzione che si sta consumando il vero dramma. La Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), alla quale partecipano metà rappresentanti dello Stato haitiano e metà di paesi «amici» e istituzioni finanziarie internazionali, è do fatto gestita da Bill Clinton, co-presidente insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive. L’influenza della Banca Mondiale è anche determinante. «Sono totalmente scollegati dalla realtà.
Approvano i progetti, ma poi, di fatto, non sanno neanche se ci sono i finanziamenti» racconta il giornalista Gotson Pierre. Dei 9,9 miliardi dollari in 10 anni «promessi» sulla carta dalla comunità internazionale all’incontro di New York del 31 marzo, pochissimo si è visto finora. «Chi è riuscito a lasciare l’inferno delle tendopoli lo ha fatto con mezzi propri, non per l’intervento del governo, né per quello delle Ong o dell’Onu» racconta un testimone haitiano. Nulla viene comunicato sulle attività della Cirh, e nulla è visibile sul campo. Molto grave è anche il fatto che la gestione di un processo così delicato, che influenza il futuro del Paese, sia in mani straniere.
«Il blocco è dovuto a una mancanza di leadership. Non c’è una volontà politica di prendere decisioni. Lo stato sta adottando sempre più una mentalità da assistito, si rimette agli attori internazionali» dice ancora Gotson Pierre. C’è un grave problema fondiario, mancano i documenti di proprietà dei terreni, il che crea difficoltà per la ricostruzione. Perfino per le costruzioni provvisorie, fatte il legno e teloni lo Stato cerca di non prendere responsabilità.
Elezioni in vista
Altro punto importante di impasse sono le elezioni. Previste per il 28 novembre dovrebbero dare ad Haiti nuovi presidente e parlamento (attualmente la camera dei deputati e un terzo del senato sono scaduti, ma le elezioni, previste a febbraio non hanno avuto luogo a causa del sisma).
«Il governo dovrebbe prendere delle decisioni che vanno contro alla sua politica attuale, basata solo sull’aspirazione al mantenimento del potere» denuncia Vaillant Jean Ronel, già sindaco di Léogane, la città più colpita dal terremoto. Intanto i paesi che hanno promesso i fondi della ricostruzione, di fatto, non li hanno versati. Ad eccezione del Venezuela. «È forse per un problema di credibilità e fiducia nel governo – continua Vaillant – incapace di decisioni importanti. Si dovrebbero fare espropri, prendere decisioni anche impopolari. Si parla anche di fallimento di Clinton».
Di fatto sono Ong internazionali che stanno agendo al posto dello Stato. Cercano di migliorare la vita degli sfollati, portano assistenza sanitaria, costruiscono scuole provvisorie. Ma c’è anche una forte contestazione del governo da parte della società civile. Sono i movimenti sociali haitiani (contadini, operai, diritti umani, donne), così importanti nella storia degli ultimi 30 anni del Paese, che accusano l’esecutivo e il presidente di inattività, ma anche di voler organizzare elezioni che andranno a favore del gruppo attualmente al potere. Manifestazioni di strada hanno luogo, ormai da mesi, nelle diverse città di Haiti. Molte associazioni dichiarano che i propri membri non andranno a votare.
La campagna elettorale, intanto, è entrata ormai nel vivo dal 15 ottobre scorso e i 19 candidati alla presidenza cercano voti in giro per i dipartimenti. «Di fatto solo il partito al potere può contare su un apparato statale in grado di fare propaganda ovunque» contesta Vaillant, che è dell’Opl (Organizzazione del popolo in lotta), all’opposizione.
René Préval, l’attuale presidente, aveva già fondato a fine 2009 un nuovo partito Inite (Unità) e «acquisito» deputati, sentori, sindaci, dagli altri partiti. Oggi la lotta per il potere diventa ancora più intessente, grazie ai fondi in arrivo per la ricostruzione. Così Préval spinge sul suo candidato Jude Célestin (che è anche suo cognato) mentre i due sondaggi realizzati danno favorita Mirlande Manigat, centrista e moglie del presidente Leslie Manigat (in carica per 4 mesi nel 1988). Ma i maggiori partiti dell’opposizione, come l’Opl, hanno deciso di boicottare lo scrutinio. Mentre denunce di distribuzioni di armi (nel paese ne circolano già oltre 250.000) e i primi incidenti violenti gettano ombre sul processo elettorale.
Marco Bello è giornalista e fotografo, dal 1992 si occupa di America Latina e dal '98 di Africa e di cooperazione internazionale. Arrivato ad Haiti per la prima volta nel 1995, vi ha poi vissuto e lavorato al settimanale in lingua creola "Libète", legato ai movimenti sociali haitiani. Oltre a Port-au-Prince, ha vissuto anche a Parigi, in Burundi e in Burkina Faso. Nel 1999 ha vinto il premio giornalistico internazionale "Lorenzo Natali" con il collega Paolo Moiola.