Mentre sui media mainstream ancora ci si spende in distinguo tra manifestanti “buoni” e “cattivi”; mentre Maroni infarcisce i suoi discorsi di termini di facile comprensione e immediato effetto come “terroristi”, “Daspo”, “arresti preventivi” e “black bloc”; mentre è ancora in corso la gara alla presa di distanze, con un Di Pietro colmo di furor sacro che arriva persino a reclamare una nuova legge Reale, sembra che in pochi si rendano conto di quello che è veramente emerso dai fatti del 15 ottobre.
Tutto parte da una constatazione cruciale: gli incappucciati, che definire black bloc è un imperdonabile esercizio di approssimazione, non sono emersi dal nulla, non si sono infiltrati nel corteo né, tantomeno, erano lì per motivi diversi da quelli degli altri manifestanti. Erano invece una componente organica del corteo, nemmeno la più sparuta.
Un range di sensibilità era in piazza sabato. Le sigle e i gruppi che si erano dati appuntamento a Roma avevano obiettivi e slogan incredibilmente vari, minimo comun denominatore quell’indignazione tanto potente quanto nebulosa, rivolta verso una molteplicità di situazioni, problemi e ingiustizie. A fronte di una tale eterogeneità nei contenuti della protesta, era inevitabile che anche le forme di lotta sarebbero state molto differenti.
La violenza era compresa, piacesse o no.
Per accorgersi dell’evidenza di ciò sarebbe stato sufficiente fare un rapido giro nella rete “antagonista” dove già da giorni fioccavano comunicati infuocati. Clamoroso quello apparso su Indymedia che, tra le altre cose, recita:
«SICURAMENTE le FORZE di POLIZIA ci ATTACCHERANNO anche non dovesse esserci il minimo intento conflittuale (che comunque ci sarà e DEVE ESSERCI da parte nostra): dobbiamo tutti … DEFINITIVAMENTE, COMBATTERE!»
E ancora:
«Portare con se’ di “tutto” per PRENDERE e TENERE la ‘PIAZZA’! Se ci accoppano dei compagni non paralizziamoci, non diamo in isterismi ma rispondiamo colpo su colpo.»
All’interno degli stessi movimenti radicali poi la violenza sconfinata nel vandalismo gratuito è stata duramente criticata, ma spesso solo sul piano contestuale, non su quello sostanziale.
La caccia all’incappucciato è però un esercizio di comoda semplificazione, miope e superfluo. Ciò che si è palesato a Roma pretende un esercizio di comprensione che deve prevalere su schemi ideologici sorpassati e su chiavi di lettura ormai inefficaci. Un nuovo movimento si è affacciato sulla scena, lo stesso che aveva dato mostra di sé, sempre nella capitale, il 14 dicembre scorso. Negarne l’insorgenza è un atteggiamento puerile che non solo non risolve il conflitto sociale, ma finisce per approfondirne i contrasti. La raccolta di foto di violenti su Repubblica.it o l’arresto del “famigerato” er Pelliccia o di altri come lui non sono che palliativi. Non saranno la delazione costruttiva o il ricorso al capro espiatorio a risolvere uno stato di cose che ha radici profonde nella cultura e nella società di questo Paese. Radici che tutti, pare, ostentano di non riconoscere.
Quello che la politica in questo momento rifiuta di accettare è l’urgenza di un’analisi antropologica approfondita, che non può essere sostituita da una caccia alle streghe. L’uso spropositato che si è fatto in questi giorni di definizioni quali “provocatori” e “vandali” dà mostra dell’incapacità della classe dirigente di percepire un forte segno di discontinuità, di sentire il polso del paese. A fianco dei (relativamente) pochi guerriglieri organizzati c’era una massa di gente che si riconosceva in quelle pratiche, le appoggiava e vi si univa, dando loro forza. Catalogarli in toto come una massa di ragazzetti ottusi e scalmanati è una semplificazione quasi criminale.
Un disagio sociale latente e inascoltato si è manifestato. E non è sorto all’improvviso. Dopo anni e anni di pacifici fallimenti, dai girotondi, alle occupazioni dei tetti, a esperienze quali l’Isola dei Cassaintegrati, è così sorprendente una risposta violenta (e in questo caso marcatamente nichilista) alla frustrazione? Se quel disagio è esploso con tale impeto è perché ha trovato bloccate tutte le altre vie di sfogo. Certo, al suo fianco non è poi stata assente una mentalità “da ultrà”, scevra di ogni trasporto politico, ma anche quello è sostegno popolare, esattamente lo stesso su cui poggia più di un partito.
Fiumi di parole sono stati spesi in seguito delle rivolte nelle banlieue parigine e ai recenti riot londinesi, per non parlare del fenomeno sommariamente definito Primavera Araba. I fatti nostrani vengono invece rapidamente bollati come privi di contenuto. Eppure anche là c’erano macchine bruciate, violenza gratuita e vuoto vandalismo. Ma quella non è che la crosta, il nucleo pulsante sta sotto, vivo più che mai. Se si vuole evitare che ciò che si è verificato a Roma il 15 ottobre non abbia seguito è necessario ripensare radicalmente le forme di protesta abituali. D’ora in poi ogni manifestazione dei movimenti avrà scene come questa incluse nel pacchetto. Al contempo è però fondamentale dare una risposta politica lungimirante a quel disagio montante che sta iniziando a traboccare. Questo dev’essere il centro della discussione ora. Tutto il resto è paccottiglia per tribune politiche e proclami in doppiopetto. Superflua, se non del tutto controproducente: non è di certo soffiando sulla brace che si scongiura l’incendio.
Eliano Ricci, classe '85, è laureato in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Bologna, lavoratore mediamente precario e musicista. Si interessa di politica, cultura alternativa e pubblicità.