Chi glielo dice a un operaio che deve andare in cassa integrazione? E che magari la prospettiva è quella di mettersi in ferie perché ha un mutuo da pagare?
“Un mio collega, Vittorio, ha appena preso casa e ha un mutuo da pagare”. A parlare è Roberto, 29 anni, fino a qualche settimana fa operaio in una fabbrica che produce canotti oleodinamici. “Ha speso tutte le ferie, anche quelle arretrate, per non andare in cassa integrazione. Ha scelto di giocarsi le ferie per onorare il mutuo e non andare in protesto”.
La crisi economica avrà toccato l’apice ma è una magra consolazione per le migliaia di persone che staranno a casa senza andare in vacanza. Roberto ha visto molti colleghi disperati: “Andrea si vergogna di essere stato messo in cassa, per questo le settimane in cui sta a casa va a fare la spesa, pulisce bagno e pavimenti, stira. Una volta è andato al mercato a prendere un vestito per la moglie, detesta non sentirsi utile per la famiglia e non gli sono rimasti altri mezzi per dimostrare il suo amore”.
La Fabbrica di Roberto è uno degli esempi sommersi, di quelli che non compaiono sui giornali, perché la crisi deve rimanere nell’alveo delle statistiche: le storie delle persone emozionano il pubblico e, se succede, diventa pericoloso.
“Io me la sogno la cassa integrazione: devo sentire le lamentele dei colleghi anziani che spostano da una parte all’altra del magazzino materiali già imballati, un giorno il reparto sud viene trasferito a nord, il giorno dopo viceversa: le merci non si vendono e l’ azienda impiega gli operai così”.
Se i colleghi sentono di essere inutili e si sentono frustrati, a Roberto va peggio: “Da due anni che ho un contratto atipico; mi viene rinnovato di sei mesi in sei mesi. Ad aprile vengo convocato per la firma della proroga, ma il responsabile del personale mi fa sedere e in cinque minuti il mondo mi cade addosso: non mi rinnovano”.
Roberto in busta paga aveva 1.100 euro al mese: ” Pagavo 400 euro di affitto, 200 euro del mutuo della macchina e con gli altri ci mangiavo, benzina e una birra con gli amici. Ogni tanto”.
Roberto ha cominciato da poco a ricevere il bonus per i precari senza lavoro: “Con 220 euro al mese posso provare a vivere sotto un ponte, mendicare una bici e dedicare otto euro al giorno alla spesa”.
Chi lo dice ai cassa integrati cosa ha provato Roberto quando è andato dal padre a chiedere di garantire il mutuo per la casa? Immaginate cosa si prova a entrare dalla casa in cui si è cresciuti per ammettere, ai propri genitori, il fallimento?
Roberto ha provato vergogna anche quando è andato a parlare al rappresentante della concessionaria e gli ha detto che non poteva pagare le rate della macchina: “In via del tutto eccezionale mi ha concesso una proroga di sei mesi. Nessuno si rende conto di quello che ho provato a confessate a uno sconosciuto che con 220 euro al mese non posso permettermi nemmeno la benzina…”
Per sopravvivere, da qualche settimana, Roberto ha messo in affitto un posto letto. Non dorme più da solo: “Gli chiedo 150 euro in nero – aggiunge Roberto. – Non avrei mai immaginato di avere un introito in nero nella mia vita ma oggi quei soldi mi servono e preferisco chiudere la coscienza che tirare la fame”.
Continua a chiedersi – dopo le parole rasserenanti di Berlusconi a “Porta a Porta” – se esiste una città in Italia in cui è possibile vivere dignitosamente con 220 euro al mese: “Ho cominciato a fare la spesa al discount – sottolinea – a cambiare le mie abitudini: oggi non esco più con gli amici, da settimane non bevo una birra in compagnia”.
Sul filo del rasoio: “So che la cassa integrazione è brutta ma rispetto a noi precari, un paradiso. Berlusconi ha coraggio quando dice che il Governo ci è vicino, mentre passeranno mesi per alzare le quote del bonus precari, e mi pignoreranno i mobili e si riprenderanno la casa”.
Il suo desiderio di indipendenza sembra essere in dubbio: “Prima dicono che siamo bamboccioni ma quando uno fa degli investimenti sul futuro, c’è qualcuno che fischia il fuorigioco e si torna da capo”.
Roberto sa di vivere un momento particolarmente drammatico: “Non trovo uno straccio di lavoro con contratto, tutto in nero e malpagato. I suoi gli occhi diventano lucidi: “Mi chiedo per quanto tempo potrò andare avanti in questa condizione e fino a quando mio padre potrà permettersi di garantire il mutuo…”
Si domanda se esiste qualcuno che riesce a vivere con 220 euro al mese ed essere felice.
Intanto, di fronte davanti non vede nient’altro che l’attesa: “Sono uno schiavo – racconta – quando smetto di essere utile a qualcosa, perdo qualsiasi valore. Se 1.100 euro mi sembravano insufficienti rispetto al carico di lavoro, con 220 euro è la carità. Ho di fronte uno Stato e una società che si lavano le mani dei precari come me”.
IL LAVORO O UN FIGLIO?
Laura ha 26 anni, è laureata in lingue e si destreggia bene con il computer. E’ al suo primo co.co.pro: “Azienda di Information technology”, racconta. “Mi paga 850 euro al mese per 8 ore di lavoro al giorno. Quando avevo 19 anni ho avuto un lavoro part-time, apprendista alla segreteria di un’azienda. Prendevo 500 euro per 4 ore di lavoro: la laurea non fa alcuna differenza!”
Laura vorrebbe esser libera di mettere in cantiere una famiglia, spendere meglio il proprio tempo libero e cominciare a diventare grande: “Non posso fare un figlio: devo scegliere tra il figlio e il lavoro. Non ho alcuna garanzia: se rimango incinta, magari costretta a casa per malattia, vengo fatta fuori: non ho protezione”.
Laura vive da un anno e mezzo con Luca, stanno insieme da sei anni e vorrebbero avere la possibilità di vivere come i loro genitori: “Copriamo il mutuo mensile con il mio stipendio – dice. – Usiamo lo stipendio di Luca per le spese e se dovessimo essere in tre sarebbe impossibile sopravvivere: bisogna capire che con il co.co.pro non si può vivere, da un giorno all’altro si rimane a terra”.
Laura e Luca non sprecano il denaro: “Se va bene andiamo al cinema quattro volte l’anno e mai mangiare la pizza. Il problema non è sprecare i soldi ma non averne a fine mese per pagare le bollette: ho rinunciato alla macchina, non potevamo permettere di mantenerla”.
Nella sua ditta non esistono soltanto contratti a progetto: “Vi sono colleghi che svolgono le mie funzioni ma sono assunti come dipendenti. Se si ammalano li pagano, se stanno fuori per una visita medica vengono pagati, se hanno un figlio hanno diritto alla maternità”.
Insomma la vita da precario ha contorni precisi: “Loro possono andare in vacanza, fare gli straordinari, non sono costretti a farsi la pensione da soli, non devono pagarsi un commercialista e hanno la tredicesima”.
Laura non parla molto del lavoro perché è un’attività come tante altre, ma il lavoro le condiziona la vita. “Ogni anno quando mi scade il contratto, tremo. Fino all’ultimo giorno non ne parlano mai e comincio a pensare: dovrò cercare un altro lavoro ? Poi chiamano e respiro”.
Laura non trova la solidarietà dei suoi genitori: “Dicono che ci lamentiamo troppo e che non conosciamo la vera povertà, a differenza di loro… Non si sentono minimamente responsabili di aver accettato di votare quei governi che hanno distrutto i conti dello Stato… E oggi hanno il coraggio di votare Berlusconi perché dicono che è uno che si è fatto con le proprie mani”.
Laura e Luca avrebbero voglia di andare a vivere in un altro paese, ma più che una partenza questa eventualità ha i contorni dell’esilio.
SE I LETTORI SAPESSERO… GIORNALISTA, DUE CAFFE’ AD ARTICOLO
“Se i lettori sapessero…” Davide Campari pronuncia questa frase spesso, si guarda intorno e sembra rivolgersi alle persone che attraversano la strada.
Davide ha iniziato cinque anni fa a scrivere, a collaborare con le prime testate giornalistiche.
La sua passione nasce sui banchi di scuola, quando era nella redazione del giornalino di istituto: voleva fare il giornalista e raccontare come va il mondo, denunciare quello che non va e mettere a nudo il potere.
Davide credeva nel potere delle parole e quando gli hanno chiesto di iniziare a scrivere i primi articoli su un settimanale della sua città quasi non gli pareva vero, anche se doveva limitarsi a scrivere di sport locale.
Sembrava un sogno, lo pagavano pure otto euro netti ad articolo. Una cifra che gli sembrava ragionevole, dal momento che era il suo primo incarico e aveva già un lavoro da precario come ufficio stampa.
Inoltre poteva andare allo stadio gratis e conoscere i protagonisti del calcio, raggiungere una certa confidenza con calciatori e dirigenti sportivi… Insomma si sentiva, in un certo senso, anche importante.
Tre anni fa, quando gli è scaduto il contratto, Davide ha colto l’occasione al volo e ha iniziato a collaborare con il quotidiano della sua città: “Avevo molto da imparare e da un momento all’altro sembravo essere diventato un giornalista – ci svela. – Quando andavo alle conferenze stampa mi trattavano tutti con particolare attenzione, perché quello che avrei scritto sarebbe stato letto da tutta la città”.
Davide aveva messo un po’ di soldi da parte e più che guadagnare era interessato a imparare bene il suo lavoro: “I primi sei mesi ho fatto di tutto – ci racconta. – Trovavo meraviglioso scrivere dell’apertura di una nuova strada come svelare i misfatti della politica, tutto mi coinvolgeva”.
Solo chi è veramente appassionato della scrittura, può capire le parole di Davide, che sono quelle di tanti giovani che si sono affacciati in questi anni al giornalismo.
“Sapete quanto pagano? Riuscite a immaginare quanto può valere un nostro articolo? – Davide si fa serio. – Beh, se è lungo quattro euro lordi, se è corto tre euro e venti lordi”.
Rimane in silenzio e fissa il vuoto per aggiungere: “Come si può pretendere di fare giornalismo se l’unico modo in cui possiamo mantenerci è quello di sfornare parole a ripetizione? L’unico modo per sopravvivere è fare un copia e incolla, stare su un computer e scrivere, scrivere, scrivere”.
Per Davide il mestiere di giornalista è un altro: “Dovremmo stare sulla strada, inseguire le notizie, metterci anche dei giorni di lavoro per un pezzo, ma finire con l’obiettivo principale: raccontare una notizia e informare, informare realmente!”
Davide ha passato due anni senza arrendersi: “Non volevo ridurmi come molti altri – spiega – avevo giurato che io avrei sempre personalizzato e ricercato le notizie: era un patto implicito con i lettori”. Davide ha avuto un padre appassionato di cinema e in quei particolari momenti della propria gioventù in cui si forma la persona ha visto il film “L’ultima minaccia”, in cui Humprey Bogart pronuncia la frase “E’ la stampa, bellezza! E non puoi farci niente”: “Da quel momento ho sognato di fare il giornalista – spiega Davide -ho capito che volevo raccontare storie e svelare le ingiustizie”.
Ma con quattro euro lordi si fatica a raccontare, perché dietro a ogni articolo – se fatto bene – ci sono ore ed ore di lavoro, ricerca, telefonate, strada e sudore. Ma con quattro euro lordi non contano più le parole: “Tanto oggi molti hanno il tempo di leggere solo i titoli – dice Davide. – La maggior parte delle persone il giornale lo legge durante la pausa per il caffè e se uno vuole fare il giornalista non può che scrivere il maggior numero di articoli al giorno”.
Davide si è sempre chiesto quanto guadagnasse l’editore da ogni suo articolo: “Con sedici euro lordi vengo pagato per fare una pagina di giornale – rivela Davide – ogni pagina costa sedici euro lordi e delle volte mi capitava di scrivere tre-quattro pagine al giorno”. Nemmeno un giorno di pausa per Davide: “Una volta ho ricevuto 630 euro netti di busta paga mensile, vi rendete conto di quanti articoli ho scritto in 30 giorni? – Davide sembra arrabbiato quando parla di questo suo record – quasi 200! Come è possibile fare giornalismo scrivendo 200 articoli al mese?”
Era il galoppino del giornale, andava ad almeno tre conferenze stampa, dalle undici all’una, passava da una parte all’altra della città e raccoglieva cartelline stampa, provava a fare qualche domanda e poi si metteva subito a scrivere: “Dovevo consegnare tutto entro le quattro e mezza – spiega – così alle sei iniziavo a seguire le iniziative pubbliche e la sera potevo andare in giro. Poi tornavo a casa, scrivevo gli articoli e il giorno dopo mi svegliavo alle dieci”.
“Poi vado dai Sindacati e mi parlano di precarietà – dice Davide amareggiato – così come gli Enti pubblici… Tutti si riempiono di parole sul lavoro precario e i giovani ma nessuno poi ha il coraggio di essere da esempio per gli altri: alla fine si giustificano dicendo che non si può fare altrimenti”.
Oggi Davide ha trovato un altro lavoro e continua a collaborare a tempo perso con il giornale: “Continuo a scrivere due o tre articoli a settimana – spiega – mi dispiace aver rinunciato al mio sogno, ma sono tornato a lavorare nel campo della comunicazione: non ci metto passione ma almeno non vengo sfruttato in quel modo”.
Davide è amareggiato: “Io ho tradito i lettori perché a un certo punto ho smesso di interessarmi delle notizie: dovevo arrivare a prendere almeno 500 euro al mese e non potevo tener fede agli ideali: c’era l’affitto del posto letto, le bollette comuni e la spesa”.
Davide vorrebbe raccontare di questa storia, del fatto che ora riesce a permettersi anche di fare le vacanze e andare a vedere qualche concerto: “Ho rinunciato a tutto – conclude – come si può pretendere una stampa diversa, quando nei giornali si ragiona come nel Milan di Sacchi: nessun giocatore è importante perché conta solo lo schema e un giocatore è sostituibile da un altro, basta che faccia quel che deve fare. E noi dovevamo soltanto produrre parole da impaginare, senza badare più di tanto al contenuto”.
Gianluca Grassi è coordinatore del Portale Giovani di Reggio Emilia. Si è occupato di giornalismo, comunicazione e associazionismo, è tra i fondatori della televisione di strada Telecitofono e dell'associazione Gabella che ospita la Scuola di Etica e Politica Giacomo Ulivi. Ha curato Madreperla. La casa che non c’era per Diabasis.