Leggo sulla “Repubblica” che Giorgio Napolitano ha invitato ieri Dilma Tousseff, la presidentessa del Brasile, a rispettare il trattato di estradizione con l’Italia e a consegnare ai giudici Cesare Battisti, l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac). Già nei giorni scorsi il nostro Presidente della Repubblica era tornato sull’argomento lamentando che fosse “mancato qualcosa alla cultura e alla politica italiane per trasmettere e far capire davvero il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentosi del terrorismo”.
Io non ho gli strumenti dello storico o del sociologo per entrare nello specifico del problema ma credo che abbia perfettamente ragione chi sostiene che l’errore fondamentale fu quello di non far capire che i cosiddetti “anni bui” non furono gli anni di una “guerra civile”, bensì la stagione di una lotta sanguinosa che vide confrontarsi gli uomini di uno Stato democratico e una banda di criminali. Che i brigatisti rossi fossero dei terroristi sanguinari me ne convinsi (io che a lungo avevo esitato sul giudizio da dare su di loro) quando ci fu il rapimento Moro seguito dalla sua messa a morte. Ricordo la drammatica telefonata (di Moretti credo) alla moglie dello statista e quella voce che diceva.
“Dica ai responsabili della Democrazia cristiana di intervenire altrimenti saremo costretti a uccidere, pur non volendo, il professore”. Mi colpi il garbo, in quel momento surreale, di chi parlava, ossequio contenuto in quella parola “professore”, il rammarico implicito di dover fare qualcosa che non si voleva fare. Ora questa stessa gente che usava toni così pacati, cos’ untuosi, parlando di un potente, o di un ex potente, non aveva esitato ad ammazzare poco tempo prima, come cani, senza tanti giri e rigiri di parole, cinque uomini della scorta, cinque onesti poliziotti pagati con un tozzo di pane. Non ebbi bisogno di analizzare cause e fini per capire che ci trovavamo di fronte a delinquenti della peggior specie e non a combattenti del popolo come andavano blaterando.
E ne abbi conferma quando qualche tempo più tardi uccisero, dopo averlo torturato, un uomo innocente la cui sola colpa era quella di essere il fratello di Peci, un brigatista pentito. Mettere in giusta luce episodi come questi, evocarne chissà quanti altri nascosti negli archivi o nella memoria della gente, non lasciare nell’oblio chi porta ancor oggi i segni di quella ferocia e di quella barbarie, avrebbe fatto capire a certi difensori ostinati, in particolare francesi, che la storia di Cesare Battisti è, nonostante certi riscatti apparenti, la storia di un criminale.
(Ndr: almeno qualcuno che esiste qualcuno con una posizione unica, dato che c’è chi invece ha due facce, come il Cavaliere. E come riportato qui)
Gino Spadon vive a Venezia. Ha insegnato Letteratura francese a Ca' Foscari.