Lo zio, la tivvù e la curiosità morbosa dei media: hanno frugato il diario di un'adolescente svergognando le fantasie dell'età di passaggio
Antonella BECCARIA – I tre mostri che hanno ucciso Sarah
07-10-2010L’annuncio di morte arriva in diretta televisiva. E conferma l’esistenza di tre mostri: un primo mostro – presunto, al momento – in famiglia, che sembra darsi da fare per ritrovare la nipote scomparsa mentre custodirebbe la chiave della sua sparizione; come in una riedizione del Videodrome di David Cronenberg, il secondo mostro rende permeabile la realtà televisiva e la realtà “reale”, facendo in modo che si fagocitino a vicenda. L’ultimo mostro, forse figlio (o genitore) del secondo, viviseziona la vita di un’adolescente facendone carne in scatola per rivelazioni televisive e doppie pagine sparate a raffica.
Camminano tra noi
La vicenda di cui parliamo è quella di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana, provincia di Taranto, scomparsa lo scorso 26 agosto. Nelle varie dirette che la trasmissione di Rai3 Chi l’ha visto ha dedicato a questa storia, un’affermazione corretta era stata portata nelle case dei suoi telespettatori. A pronunciarla era stata una madre, Filomena Iemma: per diciassette anni ha cercato la figlia, Elisa Claps, venendo infine a sapere che il corpo della giovane era rimasto per tutto il tempo nel sottotetto della chiesa cittadina, a Potenza. Aveva detto la donna: «Le ragazzine non spariscono nel nulla».
Ed è vero. Scappano di casa, le adolescenti, ma difficilmente sfuggono per troppo tempo alle ricerche delle forze dell’ordine. Se poi ci si mette la tivvù a cercarle, prima o poi saltano fuori. E possono anche essere portate via, in senso letterale o figurato, ma non cercate il mostro sconosciuto perché la maggior parte delle volte sbaglierete. Il “cacciatore” senza nome, appostato di fronte alle scuole, in un bar, in auto, esiste talvolta, ma statisticamente non è lui il responsabile, ci dicono le analisi sulla violenza sessuale che può condurre anche all’omicidio. Il responsabile va cercato nella sfera affettiva della vittima: nell’ordine, nella prima cerchia parentale (i conviventi), nella seconda (i parenti più prossimi non conviventi) e in quella amicale e nelle frequentazioni quotidiane o quasi.
È ciò che è accaduto a Elisa Claps, per quanto le indagini continuino a essere difficoltose e contraddittorie, anche dopo il ritrovamento del corpo. Ma è accaduto anche a Lorena Cutraro, 14 anni, di Niscemi, punita dal branco di sedicenti amici perché incinta di uno di loro. O a Carmela, 13 anni, di Taranto, che sopravvisse allo stupro, ma venne giudicata psichicamente instabile e finì per togliersi la vita mentre gli aggressori, anche in questo caso amici” al tempo minorenni, furono affidati a un programma di rieducazione. Con questo genere di esempi si potrebbe procedere a ritroso in decine, centinaia di casi, compreso il massacro del Circeo del 1975 e, l’anno successivo, il delitto con occultamento di cadavere di Olga Julia Calzoni, storia dimenticata di violenza nella violenza.
Il primo mostro – l’esecutore materiale, colui che brama, vuole e può anche uccidere, pur di avere o se si sente rifiutato – è conosciuto dalle vittime di violenza. E per quanto sia socialmente più tranquillizzante pensare allo sconosciuto che arriva da fuori e fuori se ne va dopo il delitto, è un pensiero troppo spesso fuorviante.
Affermazioni e smentite in diretta tivvù
Mercoledì 6 ottobre. La trasmissione Chi l’ha visto è ormai entrata nella seconda parte. Si parla di un caso, una famiglia che, come tante in tanti anni, chiede aiuto per ritrovare un familiare di cui non ha più notizie. Ma il dialogo si interrompe, arrivano informazioni da Avetrana e la linea passa all’inviata che, insieme ad alcuni componenti della famiglia Scazzi, è a casa degli zii della ragazzina scomparsa. A questo punto la confusione: è stato trovato un corpo, non è vero, lo si cerca, è arrivata una segnalazione, c’è ancora un parente sotto interrogatorio.
Senza più una direzione, senza poter contattare gli inquirenti, senza riferimenti nella ricerca di conferme alle voci che si infittiscono, inizia una diretta che si consuma di fronte alla madre della ragazzina, Concetta Serrano. Si intuisce che siamo alla fine del mistero di Avetrana, ma per una manciata di minuti potrebbe ancora darsi che sia arrivata una telefonata con una segnalazione, l’ennesima pista – e l’ennesima speranza – a cui aggrapparsi. Ma nella concitazione crescente, senza che siano state ancora pronunciate le parole “corpo”, “ritrovamento”, “omicidio”, una frase della conduttrice gela gli spettatori. Dice più o meno che i giornalisti non dovrebbero dare certe notizie e che le famiglie non possono essere informate dalla stampa. Manca un complemento, a questa frase, ma il sottinteso è chiarissimo.
E seppur emergesse, nel corso di quella diretta (o almeno all’inizio di quell’ultima parte), la volontà di evitare il diffondersi di informazioni tragiche e infondate, a un certo punto è stato un pullulare di schermate di Repubblica.it e di agenzie i cui titoli e testi, al pari dell’incertezza ancora strisciante, cambiavano di momento in momento. A un certo punto – probabilmente più per mancato governo della trasmissione che per spettacolarizzazione – va in scena il dramma: una madre pietrificata, un avvocato che convulsamente dà le spalle alla telecamera mentre cerca di raggiungere numeri di cellulare irraggiungibili o che squillano a vuoto, i singhiozzi fuori campo della cugina che da settimane aspetta di riabbracciare Sarah e adesso viene a sapere, con una certezza che cresce da un minuto all’altro, che il padre amato ne è coinvolto. Una specie di Natural Born Killers, nel frammento che Oliver Stone strappa alla violenta attitudine a uccidere dei protagonisti per ricostruirne vite pregresse: una specie di sit-com con tanto di risate artefatte che serve allo spettatore (ma in quel caso si è al cinema e quella è una finzione) una storia di abusi sessuali e psicologici tra assi da stiro e dispense con scatole di corn flakes. Applausi.
Se la notizia diventa il diario di un’adolescente
Ma, si diceva, c’è un terzo mostro, figlio o padre del precedente. Nei giorni che seguono la scomparsa di Sarah Scazzi, la storia viene “adottata” dai media. Che, forse a corto del classico giallo dell’estate (ricordate i casi della skipper Annarita Curina, di Simonetta Cesaroni, di Alberica Filo della Torre fino a Chiara Poggi?), si gettano sulla ragazzina, ne frugano la vita cannibalizzandone ogni aspetto.
Ecco allora che le pagine dei suoi diari diventavano foto 15 per 20 centimetri con cui aprire doppie pagine. Ecco che i vari account di Facebook diventavano fonte per ricostruire il dark side di un’adolescente che si dibatte nel più complesso passaggio della vita. Ecco che le chattate con gli amici virtuali devono costituire il retroscena per una saga allusiva che molto concede alla morbosità. Chi ha tenuto un diario – cartaceo o elettronico poco importa – in quegli anni, sa che amore e odio sono due sentimenti portati all’estremo. Così come l’amore per un coetaneo assume connotati da neverending story con cui bruciare qualsiasi tappa dell’età, altrettanto l’odio diventa verbalmente violento verso l’autorità o quanto meno verso gli insegnamenti rappresentati dai genitori. E spesso dalle madri.
Sbandierare quelle passioni adolescenziali, usarle per voler a tutti i costi vedere dietro il sorriso infantile di una ragazzina bionda ed esile, non è affatto diverso dall’esibire la biancheria usata che determinato feticismo dell’estremo oriente porta le giovanissime giapponesi a mercimoni quanto meno strani. Con la differenza che Sarah Scazzi, dopo essere stata assassinata per ormai innegabili motivi sessuali, ha subito lo stupro della sua memoria. Stupro perpetrato da gente conosciuta chissà come: invece di limitarsi a riportare all’autorità giudiziaria gli elementi di cui era in possesso, si è concessa alle telecamere e ai registratori di non importa chi.
È vero, allora non si sapeva della sua morte, per quanto chi ha un minimo di perizia con questo genere di vicende poteva dare come altamente probabile la tragedia. Ma non importa: se anche fosse stata viva, è stata comunque trasformata nella ragazzina con troppa voglia di crescere, che ammiccava per via telematica a uomini con il doppio dei suoi anni; ragazzina che voleva scappare di casa e che aveva un’unica fonte di odio, la madre. C’è da scommetterci che, nel giro di qualche anno, se fosse vissuta, avrebbe ricordato le pagine del suo diario con imbarazzo, pagine superate dal riassorbirsi delle violente pulsioni frutto di quel rito di passaggio verso la vita adulta che è l’adolescenza.
Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet, cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)