È forse inutile tornare troppo indietro nel tempo per dire quali cose non sono state fatte o sono state fatte male nel nostro Paese. Altrimenti c’è sempre una scusa buona per tutto. È tutta colpa dell’Unità d’Italia? Di Mussolini? Delle invasioni barbariche? Dello Stato Pontificio? Di Caporetto? Dell’8 settembre? Dei Borboni? Della Massoneria? Di Gianni Agnelli? Di Pippo Baudo? Del Governo Tambroni? Delle Brigate Rosse? Del Fondo Monetario Internazionale? Dei servizi segreti? Degli Ufo?…
Per cui sarebbe forse meglio fissare una data più vicina a noi e cercare di capire cosa è (o non è) successo. E forse questa data potrebbe essere il 17 gennaio 1992, inizio di Tangentopoli. Venti anni fa, giorno più giorno meno. Allora si pensava che qualcosa sarebbe cambiato. Tant’è vero che si è anche coniato il termine di Seconda Repubblica (ma chi l’ha vista?).
E cambiare voleva dire avere una nuova classe politica meno corrotta e più efficiente che portasse il nostro Paese ad avvicinarsi ai livelli sociali, civili, morali di Paesi più moderni come la Francia, la Germania o la Spagna…
Vent’anni di governi di destra e di sinistra (più di destra, certo, soprattutto dopo la funesta “discesa in campo” dello squallido squalo di Arcore). E che hanno fatto, tutti insieme appassionatamente? Cosa hanno risolto? Niente o quasi niente. Il conflitto d’interessi?: NO. Una legge elettorale seria?: NO. Le coppie di fatto?: NO. Il testamento biologico?: NO. Una riforma moderna e seria della scuola?: NO. Investimenti nell’industria?: NO. Taglio dei costi della politica?: NO. Le auto-blu?: sono aumentate. Gli stipendi dei politici?: pure. Un milione di posti di lavoro?: ma non scherziamo. L’immondizia a Napoli, Palermo, ecc?: sta sempre lì. La Salerno-Reggio Calabria?: ferma. La Tav?: pure. Pompei:? Crolla. L’Aquila?: una città morta…
E potremmo andare molto ma molto più avanti con questo elenco del “non fatto”.
Non vorrei che queste righe apparissero qualunquiste o “grillesche”. Bisogna invece partecipare, protestare, scegliere, andare a votare. Ma se non si capisce che questo Paese ha soprattutto bisogno di una “Rivoluzione Culturale” (non-violenta, naturalmente), che innanzi tutto parta da noi stessi, in prima persona, tra vent’anni qualcun altro scriverà queste stesse cose (e con venti anni di disastri in più).
Parafrasando il titolo di un gran bel romanzo dello statunitense Cormac McCarthy, Non è un Paese per vecchi, potremmo dire che – sicuramente – l’Italia non è un Paese per giovani.
- I tagli alla scuola e all’Università vanno a incidere direttamente sul futuro dei nostri figli e nipoti: l’Italia non è un Paese per giovani.
- I tagli alla ricerca vanno a colpire chi ha appena finito di studiare o chi ancora sta studiando: l’Italia non è un Paese per giovani.
- I tagli alla cultura bloccano la strada a chi vorrà occuparsi del più grande patrimonio che abbiamo: l’Italia non è un Paese per giovani.
- Portare l’età della pensione a 67 anni vuol dire lasciare a spasso per cinque anni di più quei giovani che potrebbero invece sostituire occupati ormai demotivati e a fine carriera (senza dimenticare che ogni “anziano” occupato costa economicamente almeno due neo-assunti): l’Italia non è un Paese per giovani. Tanti auguri.
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.