Da 12 anni prigioniero in casa per aver denunciato il sistema ‘Ndrangheta
Per capire la “vicenda Masciari” bisogna prima comprendere chi è Giuseppe Masciari. Incontrando Pino per caso si potrebbe confondere con un distinto signore come ce ne sono tanti altri, quello che lo rende differente nella vita di tutti i giorni è che non è possibile incrociarlo per strada mentre è intento a guardare le vetrine con la moglie o al parco giochi con i figli, a lui questi semplici gesti quotidiani sono “fortemente sconsigliati” per proteggere l’incolumità sua e della sua famiglia. Da dodici anni Pino Masciari vive prigioniero, recluso tra le quattro mura di casa. E’ il prezzo enorme che sta pagando per aver denunciato il sistema ‘ndranghetista.
Le mafie non dimenticano, mai.
Ci siamo incontrati, abbiamo parlato
Chi era Pino Masciari prima della ribellione alla ‘ndrangheta?
Ero un marito, sarei diventato padre di due figli, di professione facevo l’imprenditore edile. Le mie aziende sono state costruite in Calabria, la terra dove sono nato. A Serra San Bruno (VV) amministravo sia la “Masciari Costruzioni” di mia proprietà, che l’impresa edile ereditata da mio padre dopo la sua morte nel 1988.
Ottime premesse per godere di una tranquilla vita agiata. Cosa ha reso la tua storia una vicenda fuori dal comune ?
E’ vero, vivevo bene ed ero felice. I problemi sono iniziati il giorno in cui ho deciso di lavorare anche nell’ambito degli appalti pubblici: case popolari, impianti sportivi, scuole, strade, restauri di centri storici, ecc.
Quando mi sono proposto come imprenditore in questo settore sono cominciate le pressioni da parte del racket della ‘ndrangheta e dei politici collusi. La grande colpa di cui mi sono macchiato è di aver rifiutato di sottostare ai compromessi che impone la malavita.
Come si è manifestata la presenza della ‘ndrangheta?
In una maniera inequivocabile, certo non si è presentato qualcuno con in tasca un biglietto da visita ” ‘ndrangheta S.P.A.” Dal nulla sono comparsi personaggi che suggerivano chi mi conveniva assumere o da che ditta era meglio che mi rifornissi di materiale ma le pretese arrivavano anche da persone del mondo politico e istituzionale. Le richieste inizialmente prevedevano “doni”, auto, assunzioni, a volte appartamenti nei fabbricati da noi costruiti. Ho sempre segnalato alle autorità le pretese che mi venivano avanzate ma ne ho sottovalutato l’importanza.
Solo in seguito sono cominciate le richieste di versare il 3% dell’introito aziendale ai mafiosi e il 6% ai politici disonesti, figure istituzionali alle quali mi ero rivolto cercando appoggio. Mi sentivo circondato, ovunque mi rivolgevo mi sentivo raccomandare di accettare i “consigli” che arrivavano.
Cosa è successo quando hai manifestato la volontà di non volerti più sottomettere?
Ho cominciato con il rifiutare di assecondare le pretese dei politici collusi, le trovavo lesive della mia dignità di imprenditore. La risposta non si è fatta attendere; da quel momento i miei rapporti con le banche sono stati ostacolati, le pratiche burocratiche di cui necessitavo per lavorare venivano fortemente rallentate, in ogni modo hanno tentato di rendermi impossibile lavorare. A quel punto ho preso il coraggio a due mani e ho tagliato ogni rapporto anche con la ‘ndrangheta. In questo caso la risposta è stata più violenta: sono cominciati i furti di materiale dai magazzini, gli incendi dolosi, i danneggiamenti ai macchinari, le minacce a me e a chi aveva rapporti con me. Arrivarono addirittura a sparare alle gambe a uno dei miei fratelli.
Mi sono trovato, come si dice, all’angolo e obbligato a scegliere tra due sole possibilità: chiedere prestiti agli usurai come mi è stato spesso suggerito, lasciando di fatto che la ‘ndrangheta ingoiasse le mie aziende o denunciare alle forze dell’ordine tutto quello che stava succedendo. Ho scelto la seconda alternativa.
Quando avvenne?
Nel 1994. In quell’anno, con enorme strazio, ho licenziato tutti i miei operai e mi sono recato alla Stazione dei Carabinieri di Serra San Bruno cominciando a raccontare tutto quanto mi era successo alle Forze dell’Ordine. Considerata la gravità dei fatti che dichiaravo si è interessata alla vicenda anche la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. Fu proprio la DDA di Catanzaro che prospettò per la prima volta a me e alla mia famiglia la necessità di entrare sotto la tutela del Servizio Centrale di Protezione considerando grave e imminente il pericolo a cui mi sottoponevo denunciando i soprusi che avevo dovuto subire.
Un grande sacrificio, ma così hai ottenuto giustizia
Lo dico con molta amarezza ma a distanza di 15 anni sono ancora in attesa di ottenere una giustizia giusta. Denunciare è stato come dar fuoco ad un covo di vipere, vipere velenose che si sono accanite ancora di più e in maniera più feroce di prima. Nell’ottobre 1996 il tribunale ha dichiarato il fallimento della “Masciari Costruzioni”, il mese seguente lo stesso giudice che aveva emesso quella sentenza è stato messo agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, falso e truffa. Questo particolare non è un dato ignorabile per capire quanto profondamente è penetrata la ‘ndrangheta nelle istituzioni e quanto può influenzare l’imparzialità di alcune sentenze come è stato per la dichiarazione di fallimento della mia azienda. Tempo dopo, infatti, è stata riconosciuta la totale incolpevolezza dell’imprenditore Giuseppe Masciari rispetto al fallimento dell’azienda, gli organi competenti hanno accertato e dichiarato che il mio è stato un fallimento interamente dovuto alle interferenze mafiose, per questo motivo lo Stato si impegna per la mia riabilitazione.
Quando la tua vita è mutata profondamente?
Allora non lo sapevo ma il 18 ottobre 1997 è stato il primo giorno di una nuova vita, un esistenza molto lontana e differente da quella che avevo pensato di avere con la mia famiglia. Quel giorno, con mia moglie e i nostri due bambini appena nati siamo entrati a pieno titolo nel programma speciale di protezione. I Carabinieri ci sono venuti a prendere in piena notte per portarci verso una “località segreta protetta”. Una coperta avvolta intorno ai bambini per non fargli prendere freddo e siamo scomparsi, scappati di notte dalla mia terra perché diventata troppo pericolosa per la mia vita. Ho continuato a fornire la mia collaborazione alle forze dell’ordine testimoniando come parte offesa in vari importanti processi contro la ‘ndrangheta che mi vedevano costituito come parte civile. L’allora procuratore generale Pier Luigi Vigna, mi definì “il principale testimone di giustizia italiano“. Io ho continuato a fare quello che mi sembrava giusto fare ma la paura mi accompagnava costantemente.
Non ti bastava la garanzia di essere entrato a far parte del programma protezione testimoni?
Certo che si, ma per un uomo che sta rischiando concretamente la vita certe “leggerezze” che sono state compiute le vivevo ovviamente in maniera molto pesante. Mi spiego meglio, è successo ad esempio che ad alcuni processi in cui inevitabilmente mi sarei dovuto incrociare con gli individui che stavo denunciando venissi accompagnato con veicoli non blindati che riportavano la targa di quella che avrebbe dovuto essere la località segreta di residenza dove in quel momento avevo moglie e figli; in attesa che avessero inizio alcuni processi sono stato fatto sedere in mezzo agli imputati che avevo denunciato e contro i quali da li a poco avrei testimoniato. Durante alcuni processi che si tenevano in Calabria succedeva che per un determinato arco di tempo venissi lasciato senza scorta o che negli alberghi dove alloggiavo venissi registrato con il mio vero nome e cognome. Queste cose determinano sicuramente insicurezza.
È stato sempre così?
No, certo che no. In quegli anni sono stati fatti anche grossi passi in avanti in materia di promulgazione di leggi. Basti pensare che quando nel 1997 ho cominciato a denunciare la ‘ndrangheta, non esisteva ancora la figura del “Testimone di Giustizia” e tecnicamente la legge che doveva garantirmi era la stessa dei collaboratori di giustizia, i delinquenti che poi si pentivano. Finalmente nel 2001 con la legge N°45 è stata introdotta la figura del “Testimone di Giustizia” ma la lacuna legislativa di quei primi anni è stata fonte di fraintendimenti poi strumentalizzati da chi era interessato a sporcare la mia immagine, su questo punto però non voglio fare sconti a nessuno, ho pagato cara la fedeltà alla giustizia e ci tengo molto a che la mia integrità morale non venga infangata. Io sono un “Testimone di Giustizia”, quello che la legge descrive come colui che non avendo commesso alcun reato ma spesso essendone stata vittima decide di collaborare con lo Stato esponendo la propria vita e quella dei propri familiari a rischio.
Ritorniamo a descrivere come si sono svolti i fatti.
Il 28 luglio 2004 la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi fa sapere che sussistono gravi ed attuali rischi che non permettono a me e alla mia famiglia di ritornare in Calabria. A sottolineare la consistenza del pericolo la commissione aggiunge che se fosse successo che senza debita autorizzazione fossi rientrato nella mia località di origine si sarebbe potuta configurare una “violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione“. In pratica, per la mia sicurezza, mi esiliavano lontano dalla mia terra.
Il 27 Ottobre 2004, soltanto tre mesi dopo questa comunicazione ufficiale, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione adducendo tra le motivazioni che i processi a cui cooperavo erano terminati.
Cosa era cambiato in quei tre mesi?
Nulla! I processi per i quali avevo testimoniato erano ancora in corso.
Nel 2005 ho fatto ricorso al TAR del Lazio contro la revoca del programma di protezione che ritenevo immotivata.
Ho vissuto un momento paradossale in cui da una parte la Commissione Centrale del Ministero affermava che non ero più sotto protezione e che i processi in cui ero stato chiamato a testimoniare si erano conclusi e dall’altra la Direzione Distrettuale Antimafia certificava che gli stessi processi erano ancora in corso.
Nella realtà i processi sono andati avanti e solo per senso del dovere e per non veder sprecati tutti i sacrifici fatti fino ad allora ho continuato a recarmi a testimoniare anche se senza più alcuna scorta da parte delle istituzioni ma costantemente accompagnato da una scorta civile formata da amici che non mi hanno abbandonato.
Finalmente nel gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 previsti dalla legge come periodo di attesa massima, il TAR del Lazio ha pronunciato la sua sentenza. Il provvedimento stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza personale e giudica inammissibile che un sistema di protezione preveda una scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere che prevedono il ripristino della tutela della mia sicurezza e di quella della mia famiglia, il nostro reinserimento sociale e lavorativo oltre che un risarcimento danni.
E ora?
A tutt’oggi questa sentenza non è stata ottemperata nella sua completezza.
Credo che la vicenda meriti un ulteriore approfondimento per poter meglio comprendere fatti che altrimenti appaiono incomprensibili. Ci risentiremo presto, grazie.
Susanna A. Pejrano Ambivero (Milano, 06 Agosto 1971) ha una formazione medico scientifica, spesso impegnata in battaglie sociali e culturali soprattutto nell ambito del contrasto alla mentalità mafiosa. Vive nel profondo nord, a Cologno Monzese (MI), località tristemente nota per fatti di cronaca legati a 'ndrangheta e camorra.