La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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Tra le vittime del colpo di stato di Pinochet, gli Inti Illimani cominciano l’esilio in Italia dove stavano cantando la magia e la malinconia della musica andina. Cantano con rabbia la resistenza irriducibile alla dittatura e la loro lotta per i diritti umani. Uno che li conosce bene, Eduardo Mono Carrasco, artista dei murales, ne racconta l’avventura nel libro scritto assieme al giornalista Francesco Comina: “Inti-Illimani. Storia e mito. Ricordi di un muralista cileno”, editore Il Margine, Trento. Anticipiamo un brano del libro

Inti Illimani: come vincere il fascismo cantando

01-11-2010

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La fama degli Inti-Illimani si lega indissolubilmente a quella di Salvador Allende, primo presidente di sinistra democraticamente eletto in Cile. Una vittoria che ebbe ripercussioni internazionali importanti e fece trasalire la Casa Bianca che, dal momento del suo insediamento alla Moneda, studiò tutte le mosse possibili per far cadere il governo.

Gli Inti-Illimani furono tra i protagonisti di quegli anni, i depositari di un sogno collettivo, tanto che il nuovo governo affidò proprio a loro un compito strategico: mettere in musica il programma di coalizione, ossia rendere popolari i temi forti dell’esecutivo (la riforma agraria, la proprietà sociale e privata, la nuova cultura, la nuova costituzione, l’educazione per tutti…) utilizzando la forma di comunicazione più familiare ed efficace per il popolo: il canto e la musica.

Gli Inti diventarono i mediatori politici di Allende e dei suoi ministri, i portatori di un pensiero in cui noi tutti credevamo.

Proprio nel 1970 il gruppo incise “Canto al programa”. Ai due compositori più famosi del Cile, Luis Advis, autore del famosissimo canto Santa Maria de Iquique, che racconta l’eccidio di 3.500 minatori delle miniere di salnitro avvenuta nel 1907 a Iquique, cittadina del nordest cileno, e Sergio Ortega, che lavorò molto sui testi di Neruda e in modo particolare sul Canto general (è lui l’autore di El pueblo unido jamás será vencido), furono affidate le musiche. I testi erano di Julio Rojas. Il disco contiene 23 brani.

In sala di registrazione fece il suo esordio anche il fratello di Jorge Coulon, Marcelo, che dopo alcuni anni farà parte stabilmente del gruppo. L’lp si chiude con una nuova versione di Venceremos, canzone divenuta inno ufficiale della campagna elettorale in sostegno di Salvador Allende.

Venceremos, venceremos,

mil cadenas habrá que romper,

venceremos, venceremos,

la miseria (al fascismo) sabremos vencer.

Campesinos, soldados, mineros,

la mujer de la patria también,

estudiantes, empleados y obreros,

cumpliremos con nuestro deber1.

Horacio Durán ripensa con commozione a quell’uomo che accese la scintilla nella sinistra cilena e mise in moto i muscoli atrofizzati della società civile: «In diverse occasioni abbiamo cantato in manifestazioni politiche che vede- vano la presenza di Salvador Allende – racconta Durán –, ma non abbiamo mai avuto la fortuna di trovarci a parlare privatamente con lui. Era un politico che metteva cuore e anima nelle sue convinzioni. Incorruttibile. Era un signo- re d’altri tempi. Sentirlo parlare era un’esperienza unica, appassionante, estatica. Mio padre è stato un militante socialista fin dalla fondazione del partito. Lo conosceva molto bene. Quando avevo tredici anni Allende venne a casa mia e pur essendo piccolo dovetti cucinare per lui con la mamma. Ricordo ancora che ci mettemmo a fare delle empanadas superlative, con tutta la passione e la creatività che potevamo tirar fuori dalle nostre capacità. Lui se ne andò ringraziando e complimentandosi per l’ottima cucina. Fortunatamente non si era sentito male…».

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Anch’io ricordo bene Salvador Allende. I miei genitori avevano una casa molto grande dove passavano di tanto in tanto alcuni intellettuali di primo piano. Mia madre è sempre stata una militante di sinistra. Insieme a Pablo Neruda, Francisco Coloane e altri intellettuali aveva partecipato alla fondazione dell’Ituch (Istituto di teatro del Cile, dove Víctor Jara svolse la sua attività di regista). Era una nuova istituzione teatrale alternativa che mirava a dare una forma autonoma al teatro contemporaneo e a fare una programmazione indipendente rispetto a quella ufficiale.

Ricordo che negli anni Sessanta la mia casa era diventata una sorta di salotto di grandi artisti cileni. In fin dei conti non erano poi tante le forme organizzate di cultura in un Paese di dieci milioni di abitanti e quelle poche che c’erano venivano frequentate dai vari artisti presenti sulla scena. Ho avuto la fortuna di conoscere Neruda, Coloane e numerosi altri scrittori, attori, poeti e musicisti anche meno famosi a livello internazionale.

Neruda era un uomo elegante. Aveva la mania del collezionismo. Le sue case erano piene di oggetti strampalati che lui raccoglieva nei vari viaggi che faceva in giro per il mondo. Aveva la mania delle conchiglie, dei cappellini, dei pappagalli… Io mi annoiavo tremendamente a sentirlo recitare le sue poesie con quella lenta cadenza che mal si combinava con il fascino dei versi pieni di passione e di amore, dei canti carichi di erotismo e di impegno civile.

Fra i vari personaggi che frequentavano la nostra casa c’era anche Salvador Allende. Era un uomo straordinariamente lucido. Parlava tantissimo, era sempre appassionato. Lo vedevo entrare in casa con i suoi occhialetti dalla montatura d’osso nera, sedersi al tavolo e cominciare a gesticolare. Rideva di tanto in tanto e faceva anche battute sagaci. Era un donnaiolo inguaribile. Mi ricordo un giorno una scena che mi fece sorridere, ma anche pensare. Era il 1964 e Allende era candidato alla presidenza. Venne a casa nostra per incontrare i miei genitori. Quel giorno ci venne a trovare anche una mia cugina con un’amica straordinariamente bella. Mia madre presentò le due ragazze a Salvador Allende, il quale salutò cordialmente entrambe ma diresse subito il suo sguardo sull’amica di mia cugina. Dopo un po’ che eravamo seduti nel salotto, Allende si alzò in piedi e si precipitò verso quello schianto di fanciulla dicendole senza batter ciglio: «Se vuoi, anzi… se volete, la prossima settimana ci sarà una marcia di donne a sostegno della mia candidatura. Sarei molto felice se riesci, anzi… se riuscite a trovare il tempo per partecipare». Si capiva chiaramente che mia cugina gli interessava poco se non per il fatto che era l’amica di quell’altra ragazza. Alla fine le due fanciulle acconsentirono e ricordo che andarono alla manifestazione. Non seppi altro.

Allende lo incontrai diverse volte, anche nella campagna elettorale che lo portò al trionfo nel 1970. Venne ancora a casa dei miei, partecipò anche ad alcuni incontri della brigada muralista di cui facevo parte. Poi, una volta diventato presidente, non lo vedemmo più. Il lavoro politico lo assorbiva giorno e notte. Mi stupii nel vederlo invecchiare velocemente. In tre anni diventò bianco, affaticato, con la pelle piena di rughe. Pensai spesso a cosa potesse significare per un uomo la responsabilità di guidare una nazione in un momento storico così difficile e soprattutto in un Paese così diviso e così terribilmente osteggiato dagli Stati Uniti d’America. I problemi che dovette affrontare erano enormi. A ripensarci, a distanza di quarant’anni, capisco che i nostri sogni, le nostre utopie, le nostre speranze si reggevano su scheletri fragilissimi, vulnerabilissimi e che avevamo coltivato un giardino di grandi, affascinanti, ma vaghe illusioni.

Isabel Allende lo descrive minuziosamente nei suoi libri e in un passaggio di Paula parla anche del sostegno che egli godeva da parte del movimento muralista di cui ero uno dei rappresentanti: «Era un uomo raffinato – annota Isabel – amante dei cani di razza, degli oggetti d’arte, degli abiti eleganti e delle donne formose. Cura- va molto la propria salute, era prudente nel mangiare e nel bere alcolici. […] Metà della popolazione temeva che conducesse il Paese verso una dittatura comunista e si accinse a impedirlo a ogni costo, mentre l’altra metà festeggiava l’esperimento socialista con murales di fiori e colombe».

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