“Quando ascolto le dichiarazioni xenofobe e razziste di certi politici, quando scopro che in vista delle prossime elezioni conviene calcare la mano contro gli immigrati, provo un senso di vergogna”
Marisa BAFILE – Io, figlia di emigranti, mi vergogno di questa Italia
07-12-2009Cammino tra le strade di questa Italia che amo tanto, cerco di percorrerla il più possibile a piedi o con i mezzi pubblici per avere il tempo e la serenità per apprezzarne ogni angolo, ogni sfumatura di colore. La magia della storia, civiltà che si sono accavallate lasciando il proprio segno, mi parlano, mi raccontano. E allora mi chiedo in che momento e per quale strana, terribile ragione, sia invece sempre più difficile trovare esseri umani con cui dialogare, con cui scoprire quella rassicurante sensazione dell’essere in compagnia, della fiducia nell’altro a prescindere dalla conoscenza. È quasi impossibile guardare negli occhi un’altra persona e sentire che non sei solo. Il linguaggio, a volte anche solo quello del corpo, parla di esseri chiusi in sé stessi, di una solitudine fatta di paure e di egoismi, di ansia e di rabbia. Tra loro tanti immigrati. Altre paure, altra solitudine. Ma quando ascolto il suono di un’altra lingua o dell’italiano parlato con accento strano, chiudo gli occhi e mi ci riconosco, io figlia di emigranti in Sudamerica riconosco in quella persona le speranze, le paure, le nostalgie della mia gente. In realtà non sono solo figlia di emigranti, ho anche dedicato l’intera mia vita professionale all’emigrazione, con una passione che è rimasta intatta negli anni.
Sono tornata in Venezuela, paese in cui sono nata da genitori aquilani, a conclusione dei miei studi universitari. Per capirne di più di quel gruppo di italiani intorno a cui era sempre ruotata la vita della mia famiglia, ho iniziato a sfogliare le vecchie edizioni de “La Voce d’Italia” il giornale fondato da mio padre nel lontano 1950. In quelle pagine ingiallite ho trovato la storia di centinaia e centinaia di emigrati, delle loro avventure, a volte buffe a volte drammatiche, dei loro disagi, delle loro paure e dei loro traguardi.
Storie appassionanti più di un romanzo, che mi hanno immerso in un mondo incredibilmente ricco dal punto di vista umano. Ho capito quanto fossi privilegiata per essere parte di quella gente, sognatrice e avventuriera, che aveva superato nostalgie e dipendenze per lanciarsi verso il futuro senza paracadute. E non ditemi che li muoveva la disperazione perché in molte famiglie esisteva la stessa disperazione, si pativa la stessa fame, ma non tutti i figli partivano.
Non ho mai smesso di cercare tra le pieghe dell’emigrazione italiana, che si è sciolta in ogni angolo del mondo, similitudini e differenze. E c’è una similitudine che colpisce più di altre. Gli italiani sono stati un fattore di crescita sempre e ovunque per i paesi in cui si sono radicati, nonostante non siano mancati gli episodi di violenza, malavita e malaffare. Ma sono diventati oro per le popolazioni di accoglienza solo quando è stato loro permesso di essere anche cervelli e non solo braccia. Cioè quando sono stati accettati.
È una storia lunga, quella della nostra emigrazione, una storia complessa, una storia che ha coinvolto quasi ogni famiglia italiana. Eppure è stata dimenticata. Oggi l’Italia è paese d’immigrazione e come tanti ricchi che non vogliono ricordare di essere stati poveri, preferisce pensare che il grande esodo non sia mai esistito. A nessuno viene in mente di studiare il nostro cammino per costruire una politica di accoglienza che permetta un inserimento sano, positivo degli immigrati che, nonostante tutto, continuano ad arrivare. Bloccare le immigrazioni è impossibile e chi promette il contrario sa di mentire. Per fortuna il mondo non è fatto solo di persone che preferiscono restare a vita con porte e finestre chiuse, ma anche di chi vuole guardare oltre. La disperazione, le guerre, la fame fanno il resto. E noi, che siamo il paese con il maggior numero di emigrati, siamo incapaci di costruire un rapporto con altri che oggi vivono tra noi.
Anzi, si è innescato quel circolo perverso per cui si manipolano le paure, si scatenano i sospetti verso tutti coloro che non parlano lo stesso dialetto e si blocca ogni processo di integrazione, generando rabbie e violenza. Amministratori “creativi” inventano ordinanze su ordinanze per costruire ghetti e alimentare il rifiuto. Si vietano i cibi tipici, si vietano i luoghi di culto, si addita chi osa mantenere le proprie tradizioni, si spinge verso la marginalità dei diversi anche quei tanti ragazzi che sono nati in Italia e non conoscono altra patria. Generazione che io chiamo bagaglio appresso e che è destinata a soffrire doppiamente perché da un lato vorrebbe ribellarsi, come tutti i giovani, alle tradizioni e alla mentalità dei genitori e quindi sciogliersi e mimetizzarsi tra i ragazzi italiani, ma dall’altra si sente rifiutata e quindi senza sponde sulle quali approdare e crescere.
Quando leggo o ascolto le dichiarazioni xenofobe e razziste di certi politici, quando scopro che c’è chi pensa che in vista delle prossime elezioni conviene calcare la mano contro gli immigrati provo un profondo senso di vergogna e disagio. Ma peggio ancora mi sento quando ascolto, e mi capita spesso, persone di ogni età e ceto sociale, avallare e giustificare tanta brutale e stupida violenza. Allora io, figlia di emigranti, vorrei chiedere scusa agli immigrati a nome di questa Italia cieca e triste che oggi li respinge. Sono certa che tra cinquanta, sessant’anni si dirà che l’Italia è cresciuta grazie all’apporto degli immigrati e si spenderanno parolone come quelle che oggi rivolgono agli italiani all’estero anche quelle popolazioni che ieri li avevano rifiutati con violenza. Ma per ora vedo solo acide solitudini e allora preferisco passeggiare e dialogare con pareti e strade dense di storia.
Giornalista e sceneggiatrice. Nel 2006 fu eletta deputata dell'Unione per la circoscrizione America Meridionale (secondo governo Prodi).