Garibaldi a Vittorio Emanuele II dopo l’impresa dei Mille: «Maestà, vi consegno l’Italia». Vera o inventata che sia, la storica frase pronunciata a Teano dal generale vittorioso all’indirizzo del re che lo stava aspettando con le mani in mano è l’atto di fondazione del rinunciatarismo dei tribuni del popolo a favore di lorsignori.
In seguito, i dittatori del proletariato hanno restituito le plebi impoverite, anziché redente, ai nuovi zar. I segretari del Pd hanno affidato i collegi elettorali ai Calearo e a suoi simili. Amministratori di sinistra usciti malconci dai loro mandati consegnano i voti ereditati dai padri all’industriale o al supermanager.
La sinistra di governo si rivela inferiore a quella di lotta e si ritira in disordine rimettendosi a chi ha pratica di comando e gestione, imprenditori o dirigenti d’azienda che siano. Sfiduciata dai suoi stessi elettori, si ritira nelle ultime trincee. Dalle retrovie spera di poter continuare a esercitare il potere dividendolo con i rappresentanti degli avversari. Se mandiamo avanti loro, ragionano, non ci spareranno addosso. Gli strateghi della sinistra non hanno capito che gli avversari, da quando sono capitanati da Berlusconi e Marchionne, faranno fuoco a volontà anche se sul fronte opposto dovessero intravedere Marcegaglia e Montezemolo. I quali, sia detto per inciso, si trovano da quelle parti a farsi gli affari loro non a dare manforte ai combattenti.
Il problema però non è tanto quello contingente del chi sta con chi e perché quanto la ragione per cui la sinistra, nonostante tutta l’ideologia partorita e macinata in quasi due secoli di pensiero e la pratica fatta dai moti del 1848 al governo D’Alema, passando per la Comune di Parigi e la rivoluzione bolscevica, non riesca a farcela da sola.
La risposta è semplice quanto misteriosa: perché i suoi a un certo punto l’abbandonano. Ma perché la classe operaia e i suoi alleati (i braccianti poi scomparsi e sostituiti da classe media, intellettuali, preti operai, insegnanti, artisti stravaganti, gay, giornalisti e male assortiti vari) non si fidano più dei loro rappresentanti?
Perché gli amministratori di sinistra forniti di laurea si sono rivelati più incapaci dei loro predecessori con la sola licenza elementare? Colpa della gestione più complicata degli enti, della mancanza di soldi o della fiducia ritirata? Perché all’operaio non è bastato conoscere le 1800 parole in più che lo separavano dal padrone (don Milani) per diventare come lui? Oppure, se lo è diventato, perché non lo ha sostituito?
Se le teste fini del Partito democratico ritengono di dover ricorrere al manager o al primario venuti da fuori, con nulli o irrilevanti trascorsi politici, per mantenere il potere faticosamente costruito nei decenni del dopoguerra, vuol dire che qualcosa di grave sta accadendo, anzi è già accaduto. Siamo alla fase dei mali estremi da curare con gli estremi rimedi. La sinistra si consegna agli avversari, basta che le sorridano, che le facciano buona cera e qualche complimento.
Ma qual è il male che mina l’autosufficienza e l’autostima della sinistra? Perché l’emancipazione culturale dei ceti popolari non ha portato anche alla loro indipendenza politica? Perché tanta povera gente preferisce fidarsi dei soliti ricchi anziché dei figli del popolo assurti al potere? Perché preferisce il nababbo Berlusconi a Bersani, figlio del benzinaio di Bettola? Forse perché il primo ha fatto credere di essersi fatto da solo mentre il secondo deve ringraziare il partito? Bisogna dunque concluderne che non piacciono i leader fabbricati dai partiti? È la fabbrica partito a essere in crisi?
Perché i poveri si fidano maggiormente del ricco visto da lontano che del vicino di casa? Perché i figli della povera gente non riescono più a conquistarla e rappresentarla nonostante gli studi fatti e le competenze acquisite? Perché il blocchetto degli assegni dà più garanzie di un diploma di laurea? Per farla breve, la madre di tutte le domande sul fallimento della credibilità della sinistra è questa: perché i poveracci (e si può esserlo anche con due macchine e una tv con 90 canali) si inchinano ai signori e dicono «comandi»? Qual è il fascino segreto dei padroni, anche di quelli che non producono ricchezza ma si limitano a goderne o, forse, a sperperarla?
E se i pensatori di sinistra ricominciassero a studiare i rapporti tra servo e padrone, dinamiche antiche come l’uomo che affondano più nella psiche che nello status sociale? E dopo averli studiati ce li dovrebbero spiegare per benino, con parole semplici e condivisibili. Al punto di farci vergognare di avere al collo il guinzaglio di un padrone.
Ivano Sartori, giornalista, ha lavorato per anni alla Rusconi, Class Editori, Mondadori. Ha collaborato all’Unità, l’Europeo, Repubblica, il Secolo XIX. Ultimo incarico: redattore capo a Panorama Travel.