Sui portoni di ingresso di teatri e cinema il cartello “Chiuso per sciopero”: quel lunedì 22 novembre. Dopo la protesta di musei e luoghi d’arte, il turno ora è del settore della produzione culturale e dello spettacolo che si mobilita per protestare contro i tagli del governo previsti nella finanziaria 2011.
“Ma gli spettacoli non sono cultura. Una cosa è la cultura, una cosa è lo spettacolo, una cosa sono le rappresentazioni: lo Stato finanzia i beni pubblici. Non necessariamente finanzia i beni privati. La cultura è un bene pubblico e va finanziato. Lo spettacolo no”, afferma il Ministro Brunetta. “La cultura non si mangia”, dichiara il Ministro Tremonti.
E mentre il Ministro alla Cultura Sandro Bondi afferma di ben comprendere le ragioni della protesta, promettendo che il Fus sarà reintegrato così come saranno rinnovati al cinema gli sgravi fiscali (anche se in finanziaria non si trova traccia di tutto ciò…), il settore è sempre più allarmato dallo scenario che pare profilarsi in un orizzonte (non così lontano) se la legge 122-2010, già approvata, che prevede un taglio dell’80% agli investimenti in cultura, non verrà fermata portando alla paralisi totale.
La cultura, caro Tremonti, non si mangerà come pane e salame ma dà da mangiare. Eccome se dà da mangiare: sono più di 250mila i lavoratori dello spettacolo in Italia (artisti, tecnici, organizzatori, amministratori, personale di sala, sarte, costumisti, scenografi…), lavoratori precari, con contratti stagionali, intermittenti e non tutelati socialmente. Professioni e alte competenze svalutate e denigrate.
La cultura è un lavoro che produce, a sua volta, altro lavoro.
La cultura è altresì il motore di una civiltà. Ma noi siamo in Italia, in un paese in cui il crollo della casa dei gladiatori a Pompei rappresenta il crollo della cultura di questo paese che sta perdendo pezzi da tutti le parti… La scuola, il teatro, il cinema, la musica, l’arte, la ricerca, la formazione, sono luoghi e saperi vivi, abitati, di produzione e formazione.
È quanto scriveva, qualche giorno fa, Salvatore Settis su Repubblica: il crollo della casa dei gladiatori a Pompei è l’ultimo atto del degrado dei beni culturali del nostro paese.
Allora, la domanda sorge spontanea: perché non si considera la cultura come una fetta fondamentale dell’intero sistema economico? Come un tassello strategico dello sviluppo del Paese?
La cultura crea conoscenza e benessere, produce pensiero, eleva le menti, fornisce consapevolezza, permette di distinguere, di partecipare, di avere uno sguardo intelligente e critico, aperto e pronto all’ascolto. Ma è anche come scrive Claudio Abbado, nel suo elenco dei motivi per cui è sbagliato fare tagli alla cultura, “lo strumento per giudicare chi ci governa”. Non sarà forse questo a infastidire il potere politico?
Il Presidente Giorgio Napolitano ha pronunciato parole importanti che ci auguriamo non passino inosservate: non è con la mortificazione della cultura che si risana il paese. Anzi, è esattamente il contrario, come invece dimostrano altre nazioni che in momenti di crisi hanno accresciuto i loro investimenti statali. Perché la cultura è il più grande investimento sul futuro, è un bene essenziale e primario. Come il pane.
È nata a Parma il 15 dicembre 1971, città nella quale tutt'ora vive. Lavora da ormai numerosi anni in ambito culturale, occupandosi prevalentemente di comunicazione e organizzazione presso istituzioni e festival teatrali nazionali.