Parla Roberto Saviano. Ed è un garbato invito al risveglio. Le sue parole raggiungono la folla, che si scuote, come quando un cane si desta e si scrolla di dosso il torpore del sonno. Questo trentenne, fiore bello del Meridione, post-moderno, al di là del bene e del male, evoca e lascia immaginare un nuovo paese, una nuova terra. Serve l’amore per qualcosa di nuovo, dice. È inutile tenere le mani pulite se si tengono i pugni in tasca, aggiunge. È il tempo di ritrovare l’unità, conclude.
Saviano, così come i giovani in Tunisia, in Egitto, e ora anche in Giordania, Yemen e Palestina, rendono visibile il divorzio che si è consumato nei regimi guidati da despoti, sultani e corrotti, fra lo Stato e la società. Non già lo stato servitore di un bene comune nel nome di un’autorità che risiede nel popolo, ma un popolo asservito agli interessi dello stato. Uno stato-maschera che cela e confonde per occultare gli interessi privati di pochi. E così Saviano e gli altri ci parlano dal cuore della tenebra, svelando il volto selvaggio di chi ossessivo si aggrappa al potere nel nome della salvaguardia di un ordine che non c’è.
Non ha eserciti, Saviano, né il potere delle sue parole si fonda sulla minaccia dell’uso della forza. Piuttosto lo scrittore di Gomorra ricorda quei capi delle comunità primitive, senza re né legge, che – come ci ricorda l’antropologo francese Pierre Clastres – non disponevano di potere, ma di autorità. Il potere non stava dalla parte del capo, ma risiedeva nella comunità che lo esercitava sopra il leader. Diceva il capo della tribù Chaco in Argentina: ”Io sono il leader, però non potrei fare del male ad alcuna delle mie genti senza recare danno a me stesso; se io utilizzassi il comando o la forza nei confronti dei miei compagni, essi immediatamente mi volterebbero la schiena”. Generosità ed eloquenza conferivano legittimità ai capi delle comunità indigene. Non è una parola di commando quella proferita da Saviano. Piuttosto, è il dare voce a un discorso alternativo, a una parola diversa. “Io sono un progetto diverso”. È una parola che viene generata da una nuova comunità. Una parola generata e generante.
Saviano è come lo sciamano illuminato dei Tupi-Guarani del Paraguay, il karai, il profeta dedito a dire la verità e alla ricerca della terra promessa dai loro miti, ywy mara ey, cioè la Terra senza il Male. Quando i capi dei Tupi-Guarani tentarono di rivendicare per loro stessi il potere, divorziando dalla società, i karai insorsero dal cuore delle loro comunità, per pronunciare un discorso profetico, incitando ad abbandonare istituzioni e comportamenti toccati dal male. Il discorso profetico, dunque, come discorso sovversivo.
Saviano lo sciamano ci ricorda che il dissenso è una qualità intima della democrazia e una manifestazione della sovranità del popolo. E l’Italia oggi ha bisogno del karai per riscoprirsi come popolo e reinventarsi come comunità plurale e unita. La parola del Saviano è dunque alternativa e sovversiva. E’ una rivolta contro lo stato del bunga-bunga. Ma è anche una parola che vuole risanare quel divorzio che si è consumato in Italia tra società e stato. Cadranno le scaglie dagli occhi di noi italiani?
Aldo Civico è professore di Antropologia alla Rutgers University e
direttore del Centro per lo Studio del Genocidio, Risoluzione dei Conflitti
e Diritti Umani. Collabora con il dipartimento di Stato Usa: Obama lo ha voluto al suo fianco come consulente.