Il libro che mancava è finalmente in libreria. Si chiama Malapolizia, edizioni Newton Compton. Casi noti e inediti di soprusi, reati, violenze compiuti dalle forze dell’ordine, ma anche qualcosa di più. Il libro indica per la prima volta, oltre i casi diversi di cui si occupa, un percorso di analisi e conoscenza, che supera l’ipocrisia della facile spiegazione delle “mele marce” e ci propone piuttosto quella ben più difficile da accettare di “un sistema profondamente malato”. Il libro lo ha scritto Adriano Chiarelli, 31 anni, che secondo biografia da contro-copertina è autore e sceneggiatore, ma non giornalista. E invece il pregio principale delle storie,raccontate in modo sobrio e chiaro, è quello di ricorrere ad un giornalismo oggi considerato “vecchio e fuori moda”: l’analisi attenta delle fonti, l’attinenza ai fatti, la ricerca laboriosa e faticosa dei documenti, l’assenza di tesi precostituite. Come scrive nella prefazione Checchino Antonini, altro giornalista “dai metodi vecchi e in disuso”. Questo libro ha il merito di aver messo in fila un bel po’ di casi in assenza di statistiche ufficiali e di aver cercato un filo nero che li collegasse.
Malapolizia parte dalla tragedia che ha avuto quanto meno il ruolo di portarne alla luce tante altre: Federico Aldrovandi, così muore un ragazzo, apre il capitolo dedicato agli arresti mortali. Le pagine proseguono con Stefano Cucchi “anoressico e drogato”, Riccardo Rasman morte di uno “s’ciavo” (è il termine razzista con cui i triestini chiamavano i transfughi dall’Istria), Le ultime ore di Giuseppe Uva, Gabriele Sandri colpito da un colpo accidentale e poi le morti sconosciute, archiviate di Domenico Palumbo, Stefano Brunetti, Aziz Amiri, infine quella recente di Michele Ferrulli morte per un malore. Poi ci sono i sopravvissuti, quelli che hanno potuto raccontare e denunciare le violenze subite. Botte da orbi si chiama il capitolo che si apre con l’incredibile e assurda storia di Luciano Diaz il gaucho argentino.
Alcune di queste persone hanno ottenuto dignità e giustizia e i responsabili sono stati puniti, altre ancora attendono e sperano, e le loro vicende sono al centro di indagini e processi lunghi e controcorrente, altre ancora probabilmente giustizia e nemmeno una spiegazione le avranno mai: Marcello Lonzi un “infarto devastante”, Manuel Eliantonio gli strani effetti del gas butano, Stefano Frapporti per gli amici “Cabana”. In altri casi ancora le storie riportate dal libro necessitano già di un aggiornamento, tanto la realtà svelata supera a volte per gravità quella denunciata dalle vittime. È quanto sta emergendo ad esempio nel processo sulla morte di Giuseppe Uva, il giudice ha deciso la riesumazione del corpo e si ipotizza addirittura la violenza sessuale, o ancora i fatti nuovi che stanno per aprire nuovi scenari investigativi sulla morte di Aldo Bianzino e sul pestaggio di Luciano Diaz. Ma un libro inchiesta che parla anche di inchieste aperte a questo deve servire: ricordare e stimolare il bisogno di sapere.
Il filo nero di Malapolizia è quello di un sistema di sicurezza e di giustizia gravemente malato, più di quanto i singoli casi facciano intravedere. Storie e responsabilità diverse, ma una trama terribilmente comune: le vittime sono sempre “catalogate e disprezzate”. Tossico, ubriaco, ultrà, malato di mente, negro, cade a terra da sola, spesso lungo le scale di questure, caserme e penitenziari, si fa del male da sola e a volte si suicida. E ancora il prezzo che la giustizia impone alle vittime e ai loro famigliari è insostenibile moralmente e ed economicamente: spesso sono stati gli stessi parenti a scattare le foto ai cadaveri martoriati dei loro cari e a farle pubblicare sui mezzi di informazione; le indagini, con annesse costose perizie, sono partite dalle parti civili e non dai magistrati, anzi per aver denunciato l’assenza o la complicità delle indagini i parenti, gli amici, i blogger che quelle battaglie hanno sostenuto si trovano oggi a dover affrontare anche processi per calunnia e diffamazione; anche in presenza di sentenze definitive i responsabili sono rimasti tranquillamente ai loro posti “di lavoro”, con la solidarietà e il conforto dei colleghi e dei sindacati di categoria che ben li rappresentano, nessuno escluso. Ricorda Adriano Chiarelli nel capitolo dedicato a Emmanuel Bonsu, il ragazzo di Parma pestato in un parco e in comando da vigili urbani in borghese, poi condannati in primo grado fino a sette anni e sei mesi, il comunicato che l’allora assessore alla sicurezza Costantino Monteverdi diffuse subito dopo i fatti: “Ho ringraziato gli agenti di polizia municipale che dopo alcuni giorni di appostamento hanno arrestato in flagranza di reato un pusher. È stata un’operazione esemplare per professionalità, risultato e correttezza”.
In appendice il libro riporta alcune normative anche in questo caso ben dimenticate. Ad esempio il Codice Europeo di etica per la polizia (CEEP): il personale di polizia deve essere sottoposto alla stessa legislazione dei cittadini comuni; la polizia e il suo personale in divisa devono essere, di norma, facilmente riconoscibili; le persone che sono state condannate per gravi reati devono essere interdette dall’impiego nella polizia; la polizia deve rispettare il diritto di tutti alla vita; la polizia non deve incoraggiare o tollerare alcun atto di tortura, alcuna pena o trattamento inumano o degradante, in nessuna circostanza; la polizia deve fare uso della forza solo se strettamente necessario e solo nella misura necessaria per ottenere un obiettivo legittimo; la polizia deve essere sottoposta ad un efficiente controllo esterno.
Ed è appunto un controllo esterno, civile e documentato, che Malapolizia di Adriano Chiarelli fa e ci invita a fare.
Filippo Vendemmiati (Ferrara, 1958), giornalista, abita a Bologna e lavora alla Rai. Nel 2006 vince il Premio "Enzo Baldoni" con un'inchiesta sulla lebbra in India ("La Grande Sorella"). Nel 2011 riceve il David di Donatello per "È stato morto un ragazzo", docufilm sull'omicidio di Federico Aldrovandi.