La guerra sta per finire, ogni paese della Nato fa i conti su quanto ha speso nei bombardamenti, e i conti tornano se calcola quanto guadagnerà con petrolio e ricostruzione. Ma dei morti, dei feriti, della disperazione di chi scappa e viene ributtato in mare, in questo momento di “gioia” nessuno parla
L’ALFABETO DELL’AFRICA – L come Libia, e come Libertà (condizionata)
25-08-2011
di
Filippo Ivardi Ganapini
Per le strade di Tripoli si combatte. Scorre sangue. Siamo alle ore decisive di un conflitto che è cominciato con la sollevazione popolare in Cirenaica a metà febbraio. I tantissimi rifugiati in Tunisia (circa 250.000) e in Egitto (circa 210.000) osservano con un misto di angoscia e speranza le ultime ore del regime che li ha costretti alla fuga. Mentre i ribelli in giro per il paese festeggiano già, innalzano bandiere e cantano la libertà ritrovata. Ma sarà vera libertà? O sarà quella imposta dagli Occidentali che sono intervenuti, non certo gratis, con le loro bombe dal cielo? O si tratterà del solito neocolonialismo camuffato in salsa africana che mette i propri uomini ai vertici degli Stati per poi fare quello che vuole? Francesi e americani ci sono appena riusciti in Costa d’Avorio dove sono intervenuti per mettere da parte Laurant Gbagbo e imporre il loro uomo Alassane Ouattara. Ora lo fanno con Gheddafi. Chi il prossimo? Non certo il re sunnita al potere in Bahrein che ha represso nel sangue, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, le manifestazioni di piazza della sua gente che gridava libertà e giustizia. Non certo il presidente siriano Assad, amico di Russia e Cina, che spara sulla folla inerme e disperata. Due pesi e due misure. Come sempre. Quando ci sono di mezzo interessi, strategia geopolitica e soldi. Tantissimi soldi.
Cosa non si fa per il dio Petrolio! Prima si fanno grandi assise internazionali e lauti banchetti dove Gheddafi era accolto in pompa magna. In particolare dagli italiani, primo partner commerciale della Libia. Per fare accordi criminali: petrolio (un quarto del fabbisogno italiano), gas naturale (10%) e appalti in cambio di soldi, armi e partecipazioni in aziende italiane. Con la promessa di trattenere i profughi diretti sulle coste italiane. Senza guardare se il regime rispetta o meno i diritti umani. Che vanno bene da sbandierare nelle conferenze stampa. Non da mettere nero su bianco negli affari. Poi si congelano i beni del dittatore in Occidente ( la Gheddafi Corporation in Occidente arriva a 120 miliardi di dollari). E si bombarda. Con la giustificazione di un intervento umanitario a favore dei ribelli. Come se le bombe avessero qualcosa di umanitario. Senza tener conto che le armi usate dal regime per difendersi provengono per la maggiore proprio dall’Italia, primo paese esportatore di armi alla Libia. Paradossi che solo il dio denaro riesce a tenere insieme. Così va il mondo ipocrita controllato dai grandi, capaci di tutto e del suo contrario. Imprevedibili. Sempre abilissimi nel trasformare l’amico in nemico (i casi Saddam Hussein e Milosevic insegnano!) secondo la convenienza. Prontissimi e veloci a cambiare alleati. A seconda di dove soffia il fiuto degli affari. A chi non fa gola un paese, nono produttore mondiale di petrolio, che prima della guerra era in grado di esportare 1,6 milioni di barili di greggio al giorno (2% della produzione mondiale)? Oggi la produzione è scesa a 500.000 barili al giorno. Ma i mercati disperati si aggrappano a tutto e all’impossibile pur di tirare a campare. E provano a credere che le riserve libiche siano in grado di riprendersi e di arginare la recessione. Non è un caso che appena i ribelli sono entrati in capitale il titolo della Eni in Borsa è volato al rialzo del 6,33%. Del resto la compagnia petrolifera italiana estrae da decenni l’oro nero in Libia e fino a prima della rivolta produceva circa 244 mila barili al giorno. E la Libia si è assicurata le sue azioni per una partecipazione che si aggira attorno al 10%. Senza considerare gli affari che fanno le oltre 130 imprese italiane presenti a Tripoli con circa 600 dipendenti. Ricordo funesto di un grigio passato.
Gli italiani infatti la sanno lunga da lungo tempo in Libia. E’ il passato scomodo di un colonialismo che comincia nel 1911 sotto il pretesto di una “missione civilizzatrice”. Che di civile non aveva nulla. Esattamente come non hanno nulla di pace le missioni di oggi in Afghanistan e Iraq. Il colonialismo italiano infatti, sin dall’inizio, impegnò mezzi e metodi durissimi contro le inermi popolazioni locali. Nel periodo del fascismo la repressione arrivò al culmine con l’organizzazione di campi di concentramento e gas letali per eliminare la Sanussiyya, la confraternita islamica presente in Cirenaica. Violenze e odio che segnano la vita e la storia di un popolo. E anche la sua voglia e diritto di un riscatto che cominciò nel dopoguerra quando la legittimità del ruolo della Sanussiyya contro il colonialismo italiano fu riconosciuta dalla potenze europee vincitrici. Fu il via libera alla monarchia di Mohamed Idris Al-Sanussi. Re nudo, in un territorio senza identità nazionale con 130 clan pronti a farsi le scarpe. Bastò infatti la scoperta del petrolio a fine anni 50 perché le proteste, la lotta contro l’imperialismo e la corruzione, il panarabismo, la sete del cambiamento prendessero il sopravvento. Il giovanissimo colonnello Gheddafi prese il potere il 1 settembre del 1969 e sembrava incarnare la speranza di un socialismo arabo sullo stile di Nasser in Egitto. Attese presto tradite e trasformatesi nell’incubo di una vita controllata in ogni singolo aspetto. Il dissenso venne presto represso con crudeltà e violenza inaudite. Carceri disumane e carneficine. Nel 1996 nella prigione di Abu Selim furono barbaramente uccisi 1300 prigionieri politici. Dal 1986, anno delle bombe americane su Bengasi e Tripoli, qualcosa è cambiato nonostante l’attentato comandato nel 1988 dallo stesso colonnello su un aereo della Pan Am nei cieli di Scozia con a bordo 270 persone. Ha smesso di far uccidere gli oppositori, ha rinunciato alla fabbricazione di ordigni nucleari, ha ripagato le vittime dei suoi attentati, ha riversato maggiore attenzione all’Africa e alla sua coesione. A cominciare dalla politica estera comune. E, ovviamente, dagli affari. Il dittatore non è diventato buono. Soltanto più pragmatico, furbo e irriducibile. Tanto che, assediato e abbandonato da quasi tutti, non molla.
E ora? Dopo 42 anni di era Gheddafi nuovi scenari si aprono. Quale sarà il ruolo della Libia nell’Africa in veloce mutamento? Quale il futuro dell’influenza sui paesi africani esercitata tramite la finanziaria Laafico (Lybian Arab African Investment Company) che ha messo le mani su 24 nazioni soprattutto nei settori agricolo ed alberghiero? Il paese è comunque a terra dopo sei mesi di guerra intestina. Morti, distruzioni di case e imprese, odio e violenze non facili da ricucire. Tanti sfollati e feriti. Città massacrate e allo stremo, come Misurata. Assetto del nuovo Stato e attività economiche da rimettere in piedi. Antiche rivalità e diffidenze tra tripolitani e cirenaici da stemperare. Attuali contrasti tra arabi, berberi e neri da sanare. Con alla finestra i vicini Tunisia ed Egitto che guardano con apprensione il cambiamento in atto nel paese limitrofo che, a differenza loro, ha trasformato la protesta in guerra civile. Nel frattempo il Ciad ha paura che, caduto l’alleato, le ripercussioni si facciano sentire improvvise e vivaci un po’ più a sud. Mentre sono rientrati i mercenari in appoggio al Rais e molti studenti che avevano una borsa di studio a Tripoli. Una delle rare occasioni per i ragazzi ciadiani di fare il salto. Le multinazionali straniere, con l’avallo dei rispettivi paesi sono già pronte a rituffarsi in Libia per spartirsi la torta. Mentre l’Africa vede la fine di un regime spietato e la gioia di un popolo che prova a rimettersi in piedi. Ma anche riconosce che la libertà sarà comunque condizionata da interessi che vengono, come sempre, da fuori. E da quell’insanabile pretesa tutta occidentale di usare l’Africa a proprio piacimento come e quando gli pare. Per poi gettarla quando non serve più. Proprio come accade a quella indipendenza, tanto attesa, che continua a dipendere da chi ha la voce, gli interessi e le armi più forti.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.