I giornali del mondo l’hanno ricordata “da lontano”. Io vivo qui e prima di scrivere qualcosa su Wangari Maathai sono rimasto a lungo in silenzio all’ombra di una pianta. Nessuno può capire la quiete dell’ombra e la serenità del verde lontano dall’Africa. E una donna, tante donne, hanno lottato e continuano a lottare per difendere il respiro della natura. Sono loro il vero motore dell’Africa. Non quello dello sprint ma delle gare a lunga distanza. Non mezzo ma lungo fondo. E lungo tempo.
Quello di una vita. Sono loro che portano sulla testa il vero peso del raccolto dei campi, della legna per cucinare a casa, dell’acqua che vanno a prendere al pozzo, della merce da vendere al mercato, della famiglia da sfamare, dei figli da mandare a scuola, dell’economia informale che altrimenti arranca. Sulla terra rossa nel profondo sud del Ciad le incontri ad ogni ora sulla strada, spesso a piedi scalzi, senza paura delle spine e dei serpenti. Anche di notte, camminano al chiarore della luna. Vanno e vengono dai mercati e dai campi.
Instancabili. Loro, le donne dell’Africa. Sempre pronte ad un sorriso e ad un canto. Certo a chiederti un passaggio per alleviare la fatica. Pronte anche ad un meritatissimo premio Nobel, per la pace che sanno costruire in famiglia e nei villaggi. Quello proposto per loro nel 2011 dal CIPSI, coordinamento di 48 associazioni di solidarietà internazionale, e da “ChiAma l’Africa”. Ambìto non tanto per l’onore ma per gli effetti che le donne stanno già pensando di tradurre in possibilità aumentate di cibo e di vita. Cioè l’essenziale. Non c’è tempo e lusso per pensare ad altro da queste parti. Il tutto sui passi di Wangari Maathai, donna coraggiosa di origine keniana, che ci ha lasciato la notte tra il 25 e 26 settembre scorso all’età di 71 anni.
Prima donna africana a ricevere il riconoscimento massimo nel 2004 per il suo incessante impegno a favore della pace e della salvaguardia dell’ambiente. Donna che guardava lontano. Sorella che ci precede nel cammino e resta sempre con noi, presente e testimone di un impegno che continua con altre gambe, teste e cuori, perché il motore non può spegnarsi. Così sono considerati in Africa gli “antenati”.
Fondatrice del Green Belt Mouvement (Movimento della Cintura Verde) nel 1977, ha lottato contro la deforestazione che affliggeva il Kenia a fine anni 80, intuendo che sull’ambiente ci saremmo giocati una partita decisiva per le sorti dell’umanità. Molto prima di Kyoto, di Copenaghen e a ridosso di Rio 1992, che ha segnato una svolta per la questione ambientale a livello mondiale. Ha cominciato dal basso.
Piantando alberi a casa sua, poi al mercato convinta di « lottare contro il taglio indiscriminato degli alberi, la sparizione della foresta, l’erosione del terreno, la desertificazione, l’inquinamento delle acque; e anche contro la povertà, la fame, la schiavitù delle donne, costrette a camminare per ore in cerca di legna da ardere».
Perché l’albero in Africa è vita, è casa. Laddove ci si riunisce per parlare, per togliere le bucce alle arachidi, per mangiare e, quando fa caldo, per dormire sulla stuoia. Così sono nati i primi vivai in molti villaggi della provincia centrale keniana. Un famoso libro di qualche anno fa porta il titolo di “L’uomo che piantava gli alberi”.
Qui è proprio il caso di scriverne un altro. Cambiando il genere.
Quello di una donna tosta, che neanche il marito riusciva a imbrigliare lamentandosi che aveva troppo carattere. Impossibile da trattare come zerbino, come cercano troppo spesso di fare i maschi in Africa. Lei, capace di anticipare i tempi che altri non vedono e capiscono. Come i profeti, che aprono strade e seminano speranza nel deserto, in direzione ostinata e contraria. Che vogliono piantare alberi per ridare vita quando gli altri pensano solo ad abbatterli per intascare soldi. Che sono capaci, come Wangari, di rischiare il tutto per tutto. Anche la pelle. Come quando è stata picchiata in ripetute occasioni a sangue e poi sbattuta in prigione. Come quando, a vent’anni, ha chiesto alla Fondazione Kennedy un biglietto gratis per gli Stati Uniti. Vincendo l’impossibile è partita per studiare. Senza un soldo in tasca ha chiesto aiuto alle suore benedettine che le hanno aperto la porta. Ha conseguito prima il diploma e poi il dottorato in Biologia che le hanno permesso di rientrare in Kenya e di lavorare all’Università. Ma non di chiudersi in laboratorio. Anzi, di aprirsi al mondo e di battersi con la società civile per la grande causa della salvaguardia dell’ambiente. A chi le chiedeva cosa centrasse il suo impegno con la pace al punto da ricevere il Nobel lei rispondeva schietta: “Tutte le guerre si sono combattute e si combattono per accaparrarsi le risorse naturali che stanno diventando sempre più scarse in tutto il globo. Se veramente ci impegnassimo a gestire queste risorse in modo sostenibile, il numero dei conflitti armati diminuirebbe di certo. Preoccuparsi per la protezione dell’ambiente e lottare per l’armonia ecologica sono modi diretti di salvaguardare la pace”. Tale causa era per lei la scelta concreta di costruire giustizia e difendere i diritti umani, in modo particolare quelli delle donne: “Non si tratta solo di rimboschire il paese, ma anche di lottare per la democrazia e il rispetto dei diritti umani”. Impegno di parte, Politico, nobile. Che l’ha portata ad opporsi con forza al vecchio dittatore Moi pagandone il prezzo alto del carcere, delle percosse, degli insulti e dell’emarginazione. Senza fare un passo indietro. Anzi due in avanti. Quello di mettersi a servizio del nuovo governo Kibaki come vice ministro dell’Ambiente. E quello di ricevere un giorno il premio del Nobel inaspettato e meritatissimo. Premio che ha messo in tasca. E non per lei. Mentre sulla testa senza perdere tempo ha messo nuovi alberi da piantare. Per seminare speranza nel continente che fatica ma non si arrende. Mentre nuove piante stanno spuntando all’ombra del grande albero Wangari.
Filippo Ivardi Ganapini è un giovane missionario comboniano. Opera nella missione cattolica di Moissala, Ciad meridionale.