Nell’atrocità di questi tempi – e, per la verità, di tutti i tempi che ho visto durante la mia esistenza – ho trovato una frase come questa: «Uscire dal carcere e ritrovare gli affetti di sempre» riportata da un notiziario specializzato sui problemi dei detenuti italiani. Ne ho provato un colpo improvviso con una gioia immediata e diffusa: ritrovare gli affetti perduti! .
Nella vita si incontrano affetti, amicizie, amore dovuti a simpatie, lavoro in comune, al sangue stesso come è quello di famiglia, ad attrazione sentimentale e fisica; a volte, anzi spesso, si interrompono o, peggio, si rompono definitivamente. Una madre etiope fugge dalla guerra con il figlio in braccio e lo perde nel mare durante la traversata, un uomo perde un amico, un fratello vede andarsene un fratello nei gorghi del tempo: la parabola del figlio prodigo può diventare la parabola del figlio perduto per sempre.
«Ritrovare gli affetti di sempre»: il turbamento inatteso di questo titolo davanti agli occhi m’è sembrato un’ammonizione del mio stesso cervello, come se la ragione mi dicesse che c’è quasi sempre qualcosa che ritorna, che si ritrova là dove l’abbiamo lasciato, che qualcuno non ci ha dimenticato. «Quasi», naturalmente. Ma una speranza sufficiente per trovare la forza di continuare a lavorare, a pensare, ad amare. In una parola, a vivere. Oltre la melma in cui talvolta siamo disperatamente immersi, c’è qualcuno che ci pensa, ci aspetta, anche senza bene sapere quando potrà, e se potrà, avvenire il nuovo incontro, quando s! i stringerà di nuovo l’abbraccio amichevole o fraterno, filiale, coniugale.
Non so spiegarmi la gioia grandiosa che ho provato di fronte a questa frase: ritrovare gli affetti di sempre. Forse ne avevo bisogno, forse ne abbiamo bisogno. Certo questo desiderio di ritrovamento è comune a molti, è diffuso più di quel che si creda. L’amicizia, l’amore, l’affetto sono facce di uno stesso valore umano: che cosa siamo senza affetti, senza amicizia, senza amore? Chi si ritrova, è «l’altro». Ora capisco che cosa significa «farsi prossimo», una fra! se che prima mi scivolava addosso, come residuato informe di un vecchio catechismo fanciullesco e contadino. Un giovane africano sbarcato a Lampedusa aspetta invano il fratello che lo seguiva su un barcone affondato nella bufera dietro di lui: d’ora in poi non avrà altro che rimpianto e dolore. Questo è l’atroce contrario del ritrovare gli affetti di sempre. Chi ha perduto l’affetto o l’amicizia di qualcuno e non lo più ritrovare, sa che cosa voglio dire.
Paolo, omicida in un momento di follia, entra in carcere nel 2001 a cinquant’anni e ne esce quattro anni dopo per seminfermità mentale. Adesso ha 62 anni, vive e lavora a Milano. Racconta la sua storia e spiega: «Quando sono uscito di prigione non ho fatto molto per reinserirmi nella società: coltivo i miei rapporti che sono rimasti pressoché gli stessi che avevo prima. In carcere ricevevo due o tre lettere al giorno, fuori mi era rimasto un habitat, quindi l’ho ritrovato». Alcuni dei suoi vecchi conoscenti si sono persi per strada («È una reazione normale», riconosce), altri gli sono rimasti vicini. È ciò che conta, gli altri. Ecco perché, senza saperlo, mi sono sentito d’improvviso felice.
“Cerco di proposito aiuto tra le pagine della Bibbia e di Cicerone, religione e laicità. Un libro nato sulla parola di re-pastori, di transfughi palestinesi, in caverne o in sudici accampamenti di pelle di pecora ai limiti del deserto, ma ritenuto sacro da milioni di fedeli; e dall’altra parte i testi di un colto e combattivo politico laico romano precristiano”.
Trovo alcuni versetti nella Bibbia: riguardano, appunto, questi “altri”: «Felice l’uomo che ha compassione e dà in prestito&he! llip; Egli prodiga, dà ai poveri: la sua giustizia dura nei secoli». E Cicerone: «L’amicizia non è altro che l’accordo perfetto dei motivi umani e religiosi con il cuore e con la nostra disponibilità a donarci l’uno all’altro» Questo il significato di farsi prossimo. Ancora la Bibbia: «Meglio essere due insieme che uno solo… Se uno cade, lo sostiene l’altro. Ma guai a chi è solo, perché, cadendo, non ha chi lo sollevi!». È un invito, se non un ordine, a essere l’altro.
Mario Pancera, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, una testimonianza diretta e affascinante su Don Mazzolari, parroco dalla parte dei contadini diseredati: “Primo Mazzolari e Adesso: 1959- 1961” ('Adesso' era il giornale che Mazzolari pubblicava). Ultimo lavoro di Pancera “Le donne di Marx”, edizioni Rubettino