Dopo sei giorni di sciopero, un’insurrezione popolare, dichiarazioni impettite e trattative presunte, il Nepal si ritrova qualche metro più avanti di dove l’avevamo lasciato, ma non abbastanza da dissolvere lo strato di indecifrabile incertezza in cui è avvolto. Nonostante il paese sia entrato nel rettilineo finale che porta dritto al 28 Maggio, data prefissata per la promulgazione della nuova costituzione, maoisti e anti maoisti rimangono ancorati alle loro stantie posizioni e l’assemblea costituente, come sentenziato recentemente dalla Commissione nazionale dei diritti umani, vacilla sull’orlo della dissoluzione. I partiti di governo hanno avanzato la proposta ufficiale di prolungare di un anno il mandato dell’assemblea, mentre Prachanda e compagni, indispensabili per raggiungere i due terzi del parlamento necessari a votare l’estensione, continuano a ripetere il mantra mandato a memoria, chiedendo le dimissioni del primo ministro Nepal come prerequisito ineludibile per ogni ipotesi di accordo. Forti della maggioranza relativa dei seggi, i maoisti hanno, inoltre, annunciato che il 29 Maggio proclameranno la costituzione del popolo direttamente dalla strada.
Nessuno sa cosa possa accadere, ma gli sviluppi dello sciopero dei sei giorni hanno evidenziato un’insofferenza collettiva, che fa temere scontri fratricidi. La gente comune, infatti, stufa delle nefaste gesta di chi si proclama paladino del popolo e finisce per danneggiarlo, paralizzando l’intera nazione in suo nome, si è ribellata ai ribelli e li ha costretti a proclamare la fine (momentanea?) delle ostilità. Il sette Maggio molti cittadini hanno partecipato a un’imponente manifestazione pacifica contro lo sciopero ad oltranza, mentre alcuni gruppi di civili, armati di bastoni, hanno affrontato le poche migliaia di maoisti rimaste a Kathmandu. Lo smacco è stato grande per Prachanda, che non ha raggiunto lo scopo prefissatosi, le dimissioni del primo ministro Nepal e la presa del potere, e ha tentato di camuffare l’indotto scioglimento delle fila, rivendicando l’autonomia di una scelta presa, a suo dire, ancora una volta, pensando al bene dei nepalesi.
Peccato che i sei giorni di sciopero generale abbiano finito per piegare ulteriormente la schiena del paese, provocando ingenti perdite economiche e ostacolando il soddisfacimento delle esigenze primarie dei cittadini. I maoisti hanno, infatti, impedito ai negozianti il regolare svolgimento delle proprie attività, limitandole dalle sei alle otto di mattino e sera, e hanno punito con la violenza gli esercenti colti in flagrante. Inoltre, gruppi diversi di attivisti hanno presidiato le strade, vietando il transito di auto e moto. E le difficoltà, com’era facilmente intuibile, non si sono fatte attendere, spaziando da una progressiva penuria dei beni di consumo al graduale esaurimento delle scorte di medicinali nelle farmacie, sino al problematico flusso dei pazienti verso gli ospedali. L’accesso all’acqua potabile, poi, si è ridotto di giorno in giorno, obbligando le fasce più povere delle popolazione ad attingere dal putrido fiume Bagmati.
Kathmandu, militarizzata e in stato di allerta, è apparsa il fantasma di se stessa, ma la bolla in cui ha fluttuato sospesa ha depurato la città del suo isterico e caotico incedere quotidiano. Le strade, svuotate dei clacson e dello stridere concatenato di trapani, martelli, seghe e arnesi delle botteghe manifatturiere, si sono riempite di silenzi, brusii e schiamazzi di bambini. Mentre tacevano gli uffici e giacevano abbandonate le bancarelle dei mercati e le impalcature di edifici incompiuti, i templi lucidavano la loro sacralità, zampillando vita e aggregazione. L’aria, ripulita dello smog, è apparsa addirittura respirabile lontano dalle discariche e le distanze, poi, sono tornate distanti e scomponibili in passi. Il tutto con qualche eccezione, perché l’uomo, in tempi di necessità, si adegua e attiva l’ingegno. Così i ristoranti dalle saracinesche abbassate nascondevano spesso un accesso secondario e clienti sul retro, mentre pullman turistici, gli unici consentiti e al prezzo di 10 volte la tariffa tradizionale, si stipavano di nepalesi. Tuttavia, gli espedienti sono serviti soltanto ad arrabattarsi e lo sfociare del malcontento popolare ha probabilmente evitato l’intervento dell’esercito e, dunque, un infausto spargimento di sangue. Il tempo che sgocciola, ormai, ci dirà se lo ha solo ritardato.
Alessandro Rizzi lavora per la cooperazione internazionale in Colombia, dopo le esperienze in Asia fra Cambogia e Nepal. Nato nel 1982, laureato alla Cattolica di Milano in comunicazione dei media, ha collaborato a vari giornali, tra cui "Gazzetta di Parma" e "Corriere Canadese di Toronto". Da Londra ha scritto per "La Repubblica" e "Peace Reporter". Dalla Cambogia per "Popoli" e "Reset". Dal Nepal per "Popoli".