Sono stato un pasdaran della svolta dell’89. Lo sono stato in perfetta continuità con ciò che avevo imparato nel PCI. Già. Proprio così. Nel momento in cui, con la fine della guerra fredda, cambiavano radicalmente le condizioni per condurre le antiche battaglie di libertà e giustizia sociale si trattava di cambiar passo assieme al mondo che cambiava. A costo d’intraprendere una lunga traversata del deserto.
Sono trascorsi novanta anni da quel giorno del 21 gennaio 1921 a Livorno. Ma il PCI che incontrò la mia generazione nacque dopo. A Salerno. Cosa fu il “partito nuovo” di Togliatti se non il disegno di interpretare il mondo nuovo che usciva dalla fine della seconda guerra mondiale portando all’azione politica grandi masse di popolo fino ad allora tenute ai margini della storia? Azione politica sorretta da una visione del mondo che si rimetteva in movimento. Capacità di reinventare un partito,che non volgesse le spalle alle ragioni esistenziali della sinistra, entro un intreccio di limiti, confini ferrei ma anche potenzialità.
Un partito nuovo. Comunista e italiano. Strumento e mezzo efficace per tener ferma la barra dell’emancipazione del mondo del lavoro. Sua missione irrinunciabile e, a un tempo, sua base di crescente e allargato consenso sociale. Vedi alla voce, gramsciana, di egemonia. In seguito condannata da un provinciale riformismo dimostratosi alla prova dei fatti imbelle e culturalmente subalterno alla deriva neoliberista durata ben cinque lustri. Ma questa è un’altra storia. Quella di un ceto dirigente in fuga disordinata. Quando non in cerca d’autore. Storia e cronaca spesso segnate da una propensione all’accattonaggio costituito da una irresistibile ansia di legittimazione “democratica”. Dimenticare il PCI e insieme…. sé stessi. Altra epoca ancora.
Cosa fu il tanto spesso vituperato compromesso storico di Enrico Berlinguer, se non il tentativo di forzare la camicia di forza del bipolarismo cercando un’ardua terza via che di fatto, pur nel suo cruento fallimento, con l’assassinio di Moro, anticipò la crisi del mondo diviso in blocchi? Berlinguer fu sempre alla ricerca di un nuovo paradigma culturale e sociale di cui avvertiva, dolorosamente, l’urgenza ai fini di offrire una prospettiva e uno sbocco politico alle lotte del passato. Guardava al mondo stretto in quella morsa e cercava- mi si passi il termine – “d’allearsi con la storia” ai fini d’influenzarla rinnovando il proprio campo, rendendolo più ricco e articolato e “mondano”. E dunque “offensivo”. Non a caso guardava con interesse e speranza proprio a quella “soggettività” (non è una brutta parola) che si è tornata ad esprimere, ben al di là dei confini costituiti dai partiti, il 12 e 13 giugno scorsi. Da qui l’attenzione ai movimenti dei giovani e delle donne. Da qui, anche -per dirlo nel gergo militare d’un tempo- le “battaglie d’arresto”. Difensive, ma obbligate: dalla scala mobile alla presenza davanti ai cancelli della Fiat.
Sullo sfondo, la consapevolezza di dover porre mano ad una riforma nel modo d’essere del PCI per aprirlo al contributo di settori della società che tendevano a costituirsi trasversalmente come “nuovi soggetti politici”.
E così, nel 1989 alcuni di noi cercarono la strada per uscire da ciò che si profilava come un’impasse storica immaginando la costruzione di una nuova sinistra sulla scorta di una ricerca già avviata. Nel PCI.
Nessuna visione gattopardesca, però. In noi (o almeno in alcuni di noi) era chiara la necessità di sbarazzarci di antichi vizi, rituali anacronistici, rigidità oligarchiche sedimentate nel corso del tempo, logiche di potere interno (il famoso gruppo dirigente) coltivate a lungo entro la rendita di posizione acquisita in lunghi anni d’opposizione che scontava ormai anche un alto tasso di consociativismo politico con tutti i rischi connessi. Roba vecchia.
Adesso, è nato un altro “partito nuovo”. Così fu furbescamente definito nel 2007 il PD. Tanto per indorare la pillola ai militanti più anziani, i quali risultano alla fine determinanti nei voti congressuali. Un po’ come lo SPI nella CGIL. Senonché il leader storico più citato nei discorsi dei maggiori dirigenti del PD fu subito e ancora resta De Gasperi. Qualcosa vorrà pur dire.
Quand’ero bambino nella mia famiglia, di poveri braccianti, si canticchiava ancora un motivetto : “con De Gasperi alla testa non si mangia la minestra…”. Storicamente ingeneroso, naturalmente. E rozzo assai. Ma allora la Celere sparava sui braccianti. Prova ne sia che mia madre diciassettenne fu –cito a memoria dal verbale dell’epoca-“attinta sotto la spalla destra da un proiettile calibro 9 parabellum” che si fermò nei pressi del fegato. Dall’alto (della camionetta) verso il basso. Evidentemente. Correva l’anno 1948. Era il 14 luglio. Eh vabbè. Un semplice rimbalzo, fu stabilito nel corso del frettoloso processo, contro il parere dell’onesto chirurgo di campagna che aveva rimosso il proiettile intatto.
Roba del secolo scorso. Un’altra Italia. Già. C’era il PCI, di cui l’autore di questi sparsi pensieri ancora non si vergogna. Nonostante l’impegno profuso nel superarlo.
Mauro Zani è stato segretario provinciale del PCI e del PDS di Bologna dal 1988 al 1991. Deputato dal 1994 al 2004, poi eletto al Parlamento europeo. Non ha mai aderito al Partito Democratico: nel 2007, all'ultimo congresso dei Ds, fu tra i promotori della mozione n.3 insieme a Gavino Angius e Gianfranco Pasquino. Il suo blog è http://maurozani.wordpress.com