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Dopo la fine della dittatura di Siad Barre, la storia della Somalia è stata quella di una guerra permanente. Che tra le sue vittime annovera la giornalista del Tg3 e l'operatore Miran Hrovantin, ma anche lo 007 Vincenzo Li Causi. E che vede imprenditori italiani muoversi tra porti da costruire, aiuti umanitari, strade che corrono su lingue di rifiuti e accuse mai dimostrate fino in fondo, ma neanche dissipate del tutto

Marocchino, il piemontese con l’esercito privato all’ombra dell’omicidio di Ilaria Alpi

29-03-2010

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Nel 1992, in un reportage sulla Somalia scivolata nella guerra civile solo da un anno, veniva chiamato «un piemontese con l’esercito privato». Giancarlo Marocchino, nato nel 1945 a Borgosesia, in provincia di Vercelli, ai tempi aveva reclutato 150 miliziani e aveva messo insieme un arsenale fatto di kashnikov, mitragliette Browning 050 e M16 per continuare a fare l’imprenditore nel settore dei trasporti con la sua Sitt. Muoveva carichi un po’ per tutto il paese via terra con i quindici su venticinque tir sopravvissuti allo scoppio del conflitto e, se necessario, poteva contare anche su due Cessna e un cargo Antonov. In Somalia Marocchino c’era arrivato nel 1984, in fuga dall’Italia dove – si scrisse – il fisco e una famiglia divenuta forse troppo stretta gli stavano addosso. Qui si era reinventato un’attività commerciale e aveva costruito un nuovo focolare con Fatima, una donna del luogo cugina di Ali Mahdi, il primo presidente ad interim dopo la caduta del dittatore Siad Barre e divenuto poi esponente del governo di transizione.

Nei primissimi anni Novanta c’era chi definiva Marocchino un benefattore venuto dall’Italia. Uno che scaricava quasi a gratis aiuti umanitari e vigilava perché derrate e farmaci non fossero saccheggiati dai predoni al soldo dei signori della guerra. Ma il 29 settembre 1993, quando già era in corso la prima missione Unosom, “Restore Hope” (“restituire la speranza”, conclusasi con un disastro), venne arrestato da uomini del contingente americano con l’accusa di trafficare in armi. Ne seguì l’espulsione da Mogadiscio, ma durò poco perché il provvedimento venne revocato nel gennaio 1994 e anche l’indagine italiana finì per essere archiviata nel luglio 1995.

Ma tra arresto e proscioglimento si consumò l’evento che consegnò il nome di Giancarlo Marocchino alla memoria delle cronache italiane: l’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore, Miran Hrovatin, assassinati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. L’imprenditore fu il primo ad arrivare sul luogo dell’agguato, ci sono registrazioni della televisione svizzera che lo testimoniano, e fu lui a estrarre i corpi dei due italiani dal fuoristrada, dirigendosi poi verso il porto della città perché fossero presi in consegna dai militari italiani, alla vigilia della partenza dalla Somalia. Miran era già morto mentre Ilaria respirava ancora. «Si vede che sono andati dove non dovevano andare», disse a caldo Marocchino. Salvo poi cambiare idea e nel 1998 dichiarò a Famiglia Cristiana che «ero scosso. Oggi penso che volevano rapirli o rapinarli».

Questa è la linea su cui si muoverà anche la commissione parlamentare che indagherà sul duplice delitto di Mogadiscio. E che arriverà nel 2006 a un esito per lo meno sconsolante: la relazione conclusiva del suo presidente, Carlo Taormina, ha parlato di due giornalisti “in vacanza nel posto sbagliato”. E ha fatto gridare talmente tanto allo scandalo che Gianni Barbacetto, sul settimanale Diario, uscì con un articolo intitolato «Taormina connection» in cui si faceva un bilancio tutt’altro che lusinghiero delle attività condotte su questo caso. Una connection che si era nutrita di elementi quando meno discutibili perché, per citarne una, il presidente della commissione fu anche l’avvocato del generale Carmine Fiore, il comandante del contingente italiano che querelò per diffamazione Luciana Alpi, la madre di Ilaria, poi assolta per aver detto che l’ufficiale era un bugiardo quando affermava che i corpi dei giornalisti erano stati recuperati dai militari.

Ma i lavori di quella commissione – che Marocchino coadiuvò – sono tutt’altro che chiari anche per altri elementi. A iniziare dalla Toyota Hilux recuperata e analizzata perché sarebbe quella dei giornalisti (a fronte di quest’affermazione, la commissione però ostacolava il pubblico ministero Franco Ionta che voleva accertare se fosse vero). Si disse che il pickup era stato recuperato in Somalia grazie all’intermediazione dell’imprenditore italiano. Era stata pagata 18 mila e duecento euro ad Ahmed Duale, che si fregiava della carica di deputato del parlamento somalo. Ma – scrisse nel marzo 2006 sul Manifesto il giornalista Gianni Lannes – Duale risultava anche essere socio di Marocchino e a fornire l’auto sarebbe stato «il cittadino somalo Yusuf Cariiri, che un’informativa del Sisde Roma 1 indica per Sheikh Abdi Yusuf, detto “Iriri”, già segnalato il 16 settembre 1997 perché “implicato in truffe finanziarie”». Fatto sta che quando, un po’ di tempo più tardi, le perizie sul cassonato potranno essere fatte anche dall’autorità giudiziaria, si confermerà quanto scritto in anticipo da Lannes: il veicolo in realtà arrivava dal Kenya e le tracce ematiche presenti a bordo non erano quelle della giornalista e dell’operatore.

Da sottolineare poi che Marocchino fu nominato collaboratore della commissione Taormina nonostante fosse stato indicato tra i mandanti dell’omicidio. Così riferiva già da anni la Digos di Udine dopo aver raccolto le dichiarazioni di una fonte. E la dirigente dell’ufficio friulano, Antonietta Motta Donadio, difese così strenuamente chi collaborava all’indagine che rifiutò sempre di farne il nome. Legittimo, secondo il codice penale, ma le informazioni furono invalidate, malgrado gli investigatori avessero trovato riscontri positivi alle parole della loro gola profonda. Il cui nome, alla fine, verrà fuori per bocca di Taormina durante il lavoro della commissione che presiedeva.

Inoltre, sempre nel corso delle attività dell’organo parlamentare d’inchiesta, saltò fuori qualche ombra anche per un altro personaggio. Era Stefano Menicacci, ex parlamentare del Msi e avvocato di Marocchino che oggi difende anche Abdulqadir Mohamed Nur, chiamato anche “Enow”, un somalo accusato di stornare fino al 50 per cento delle provviste inviate dal Programma alimentare mondiale (Pam) rivendendolo ai commercianti locali e gestendo, attraverso una società di cui faceva parte, 200 milioni di dollari di aiuti umanitari. Per maggiori approfondimenti su questa parte della storia si veda il rapporto 2009 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tornando però a Menicacci e alla commissione, si disse che tra lui e alcuni testimoni convocati c’erano contatti prima delle loro deposizioni. Il legale spiegò in un’audizione che erano loro a cercarlo mentre addirittura lo stesso Taormina ha parlato di una «sistematica operazione di contatto» prima dell’appuntamento a Palazzo San Macuto. Con relativo rischio di inquinamento delle audizioni.

Nella ricostruzione della figura di Giancarlo Marocchino non si possono tralasciare poi i suoi rapporti con i servizi segreti, soprattutto con il Sismi. Quando i cronisti di Famiglia Cristiana gli chiesero se aveva mai lavorato per loro, rispose: «E come no? Ecco le ricevute. Al Servizio nucleo sicurezza della nostra rappresentanza diplomatica ho garantito varie forniture, soprattutto di gasolio. Talvolta ho riparato il generatore. Tutto lì». Di parere diverso però è sembrato tra gli altri Raffaello De Brasi, vicepresidente della commissione Alpi-Hrovatin, quando disse che «Marocchino, dal nostro lavoro di audizioni e di testimonianze, in maniera anche esplicita, anche dalla magistratura, ci viene detto che Marocchino, non solo per le conoscenze che aveva della Somalia, che fosse un agente del Sismi».

Più probabile che la realtà sia a un livello intermedio e che lo posizioni come confidente, dato fin dall’inizio si era parlato di un suo rapporto privilegiato con gli 007 italiani di stanza nella capitale somala. Ma non ci si è limitati ai “si dice”: è stato dimostrato in diverse sedi, compresa la commissione parlamentare, che era in contatto con diversi uomini del Sismi. Compreso Vincenzo Li Causi, morto in un agguato mai chiarito il 12 novembre 1993 a Balad, sempre nel Corno d’Africa, mentre si interessava al cosiddetto “progetto Urano”, «finalizzato all’illecito smaltimento […] di rifiuti industriali tossico-nocivi e radioattivi provenienti da Paesi europei» (definizione della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti).

Al di là della sorte di Li Causi e degli interrogativi ancora senza risposta, Marocchino di informazioni utili, con il suo lavoro, ne doveva raccogliere parecchie fin dai tempi in cui gli venivano affidati container da portare a Bosaso e a Garoe, proprio lungo la strada contro cui si puntò il dito perché sarebbe stata costruita su un terrapieno imbottito di rifiuti provenienti dall’occidente. E ancora, nel 1998, Ezio Scaglione – il “console onorario della Somalia” a cui il presidente ad interim Ali Mahdi affidò nel 1996 la creazione di un impianto di stoccaggio – disse quando venne sentito dal pubblico ministero di Asti Luciano Tarditi, che indagava su un traffico di rifiuti tossici e di scorie nucleari: «Si poteva[no] smaltire rifiuti radioattivi e preciso che Giancarlo Marocchino, in una delle varie conversazioni telefoniche che io ebbi con lui personalmente, mi parlò della costruzione di un porto nella zona a nord di Mogadiscio, in localita El-Ma’an, sostenendo di poter nella banchina, annegandoli nel cemento, stivare rifiuti radioattivi».

Marocchino ribatté dicendo che non era vero e accusò il pubblico ministero di Asti di usare maniere spicciole per far cantare come voleva chi interrogava. Inoltre querelò un po’ di giornalisti che raccontavano la sua storia e in commissione, rivolgendosi a Rosi Bindi, affermò: «Onorevole, io vi assicuro, anzi ci metto la mano sul fuoco, che da Mogadiscio a 100 chilometri di distanza non c’è niente. Non sto parlando del nord, perché quella zona non la frequento, stando a millecinquecento chilometri di distanza […]». Un particolare, però, va sottolineato a proposito del porto di El Ma’an: se anche Marocchino lo avesse costruito come dice di aver fatto, infarcendo cioè il cemento delle banchine con le pietre e non con le scorie, è proprio qui che operava “Enow”, il somalo difeso dall’avvocato Menicacci. Lo stesso di cui parla il rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel suo ultimo rapporto quando si riferisce a un «cartello di contractor somali».

Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet, cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)
 

Commenti

  1. Servizi segreti onnipresenti,rifiuti tossici da ogni dove,navi dei veleni,Itrec,tutto questo era stato scoperto o quantomeno intuito da Ilaria e Miran. Quanta Omertà e quanto inutili le Commissioni di inchiesta,che non concludono mai niente o affossano solo.

  2. giordano dall'armellina

    Ho vissuto in Somalia dall’87 all’89 come cooperante. già allora si parlava di armi in arrivo dall’italia su navi “regalate” dal governo italiano (Craxi andreotti).
    Conosco personalmente la fonte di cui si parla riguardo al giudice di Udine. questa fonte conosce gli assassini di Ilaria alpi, ha tentato invano di dire la sua verità ma è stato impedito dalla commissione Taormina. Ne ho parlato con lui anche recentemente (vive in Italia). E’ sempre disponibile a testimoniare ma glilo impediscono con minacce anche alla sua famiglia. Ha confermato che Ilaria non poteva dire quello che aveva scoperto : rifiuti tossici e armi che dovevano rimanere segreti. Andreotti è ancora vivo e ho l’impressione che se ne potrà forse parlare dopo la sua “auspicata” morte.

  3. […] […]

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