Morire di fame in Italia perché profugo afghano (Afghanistan 3)
21-08-2009
di
Francesco Comina
Ahmad Khan dormiva in una scatola di cartone. Non nei labirinti di catapecchie dove si accalcano i naufraghi della speranza o nelle ributtanti favelas del sud. Ahmad viveva in uno di quei luoghi nascosti nella ricca città di Bolzano, in uno di quei sotterranei della vita e della storia dove nessuno ficca mai un occhio. Migliaia di ciclisti, centinaia di pedoni ci passavano davanti ogni giorno senza mai notare quel rifugio di disperati. Ahmad aveva il cartone più lungo, agli altri quattro amici bastavano i cartoni normali. La casa era in cima a un scaletta di metallo che serve da uscita di sicurezza per lo stadio Druso, dal lato che s’affaccia sull’Isarco. Ci viveva d’inverno, nei mesi in cui la morsa di freddo aveva portato tanta neve quanta non si vedeva da anni. Era giovane Ahmad ma si sentiva già vecchio. Di strada ne aveva fatta tantissima. Veniva da un Paese lontano, veniva dall’Afghanistan in guerra. Era nato a Kabul ventisette anni fa da genitori poverissimi. Vagheggiava l’Europa, l’abbondanza, la pace. Seimila chilometri di sogno, seimila fatiche, sessantamila trappole di paura. Quando arrivò a Roma prese subito dimora fra i senza casa. Ma era solo l’inizio. Qualcuno gli disse che in Alto Adige, terra ad altissima densità di occupati, un posto di lavoro lo avrebbe trovato sicuramente e che una casa l’avrebbe pure rimediata. In fondo un permesso Ahmad lo aveva, seppure per ragioni umanitarie. E allora partì per la città del privilegio, per la terra della piena occupazione. Ma nulla di nulla. Un solo mese ha goduto di un letto messo a disposizione dalla Caritas. Poi soltanto la strada, la neve, il vento, la scala, la tettoia e qualche coperta racimolata da amici.
Ieri una notizia tristissima si è diffusa velocemente nella comunità afgana che vive nella nostra città. Il rappresentante, Alidad Shiri – anche lui ragazzino figlio dell’epopea degli piccoli afgani giunti in Italia di nascosto, attaccati alle ruote di un Tir – ha comunicato la morte di Ahmad: «A nome degli afghani che vivono a Bolzano e provincia, comunico la triste notizia della perdita del nostro caro amico Ahmad, morto a Roma la notte del 14 agosto, dopo tre mesi di malattia».
Pare che il cuore di Ahmad non abbia più retto alla tremenda condizione di vita che aveva dovuto subire negli ultimi mesi, soprattutto a Bolzano. Quando il regista Renato Pugina girò un documentario in Alto Adige sulla vicenda di Alidad Shiri per la televisione svizzera dal titolo “Il mio nome vuol dire dono di Alì”, aveva scovato il gruppetto di afgani sulla loro scala allo stadio Druso, “il nostro castello bianco”, come aveva commentato sarcasticamente uno di loro. Pugina li aveva intervistati. Ahmad aveva preferito non farsi vedere. Il documentario si apre con l’accoglienza ricevuta da Alidad e si chiude con la desolazione dell’esclusione, come a dire che per ognuno che ce la fa, cinque rimangono stritolati dalla pale dell’esclusione, del rifiuto, dell’emarginazione: «Ho solo vent’anni ma è come se ne avessi già trenta” aveva detto un ragazzone alto in lingua farsi. E il più vecchio di tutti, ventotto anni, aveva affermato con una faccia piena di desolazione che neanche gli animali in cattività vengono trattati come sono costretti a vivere loro, nel nulla più assoluto: «Io, rifugiato politico – aveva aggiunto – sono fuggito da un paese in guerra ma morirò sulla strada. Questo sarà il mio destino, questo il futuro che vedo dinanzi a me».
«La morte di Ahmad è come un pugno nello stomaco» commenta Alidad Shiri. «Era poverissimo. Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che era pronto il suo certificato di asilo politico. A marzo aveva deciso di tentare la fortuna nella capitale ma subito si è ammalato. Faceva fatica a respirare, il cuore non batteva più come prima. È stato ricoverato al Sant’Andrea ma non ce l’ha fatta. Ora tutta la comunità nelle sue varie etnie, hazara, pashtunie altre, ha fatto una colletta per sostenere la famiglia a Kabul. L’ambasciata ci ha comunicato che farà arrivare il feretro di Ahmad in Afghanistan con un volo militare».
Solo tre mesi fa a Bolzano il premio Nobel per la Pace Perez Esquivel aveva voluto incontrare Alidad Shiri in occasione della festa per i diciotto anni del ragazzo afgano autore del libro “Via dalla pazza guerra”. In quell’occasione Esquivel aveva detto: «Una civiltà non si misura sul privilegio del denaro ma sulla capacità che mostra nell’accoglienza dello straniero”. La vicenda di Ahmad rende queste parole più che mai vere.
Francesco Comina (1967), giornalista e scrittore.
Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e
ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a
"L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e
riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato
assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino
Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La
testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il
jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo
Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui
la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis
Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis
Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle
strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine).
Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano.