In un famoso frammento de La Gaia Scienza Friedrich Nietzsche racconta la storia del folle uomo che accese una lanterna e di primo mattino corse al mercato per cercare Dio. Urlò a gran voce ma tutti si misero a ridere. Lo prendevano in giro dicendogli: “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Ma il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – Ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!”.
Un secolo dopo il grande filosofo tedesco Martin Heidegger in una famosa intervista a Der Spiegel, uscita postuma, invocava il pensiero di un dio che potesse salvare l’Occidente al tramonto (Abendland), Nur noch ein Gott kann uns helfen, oramai solo un dio può salvarci: «Ci resta come unica possibilità – spiega Heidegger – quella di preparare nel pensare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)».
Il tramonto sta accelerando la corsa. Oramai non solo Dio è morto nei campi di sterminio, coi miti della razza o con gli odi di partito, come canta Guccini. Dio sta per essere sepolto nella sua essenza, nel suo Logos, nella sua stessa parola che racconta la genesi e la trasformazione del mondo. Il cinismo, la violenza culturale e politica, l’arroganza, la prepotenza, la sciatteria, la superficialità culturale, il dogmatismo di partito, il silenzio, il timore, l’inerzia di alcuni settori della Chiesa, rendono questo Natale ancora più torbido, ancora più cupo degli altri. Alex Zanotelli lancia una provocazione durissima «Se siamo arrivati questo punto, allora è meglio abrogare il Natale. Lo si cancelli e ognuno lo faccia se e come vuole».
Non ha senso celebrare una festa che ha perso totalmente di significato. L’ultima bomba alla grotta di Betlemme l’ha lanciata la proposta leghista di organizzare il Natale bianco (White Christmas) come operazione di pulizia etnica nei confronti degli immigrati clandestini. Utilizzare il Natale in chiave violenta e discriminatoria è un atto di una gravità inaudita, che chiama in causa non soltanto la comunità dei credenti ma anche chi in quel Dio non crede ma ne avverte la potenza liberatrice in chiave di riscatto sociale e di affrancamento dei poveri e degli emarginati. Perché se si stravolge la storia, se si utilizzano i simboli come strumenti di dominio, se il vangelo diventa un pretesto per cacciare gli altri, allora davvero si ritorna daccapo, si torna all’immagine del folle uomo che grida ai ciarlatani: “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso!”.
Il Natale non è bianco e non è nero. Il Natale è l’avvento nel mondo di un respingimento. Quel bimbo è il simbolo di tutti i rifugiati, di tutti i naufraghi, è la bandiera per i fuggiaschi, per coloro che brancolano da un continente all’altro alla ricerca di cibo, di pace, di casa. Ė un sem terra brasiliano, un baraccato keniano, un menino de rua, un sans papier, un clandestino che trema dormendo di notte in un angolo delle nostre città. Il Natale è il vagito di un uomo che nasce fuori le mura di Gerusalemme e sarà costretto per tutta la vita a camminare sulla frontiera fra l’essere accolto e l’essere rifiutato prima di venire ucciso fuori le mura della città come i peggiori criminali del tempo. Nessun albergo volle accoglierlo perché il Nazareno era un clandestino. Erode lo cercava per metterlo a morte. Gesù nasce in una stalla. Dio muore su una croce. La grande beffa è questa: tutto è stato creato per Lui ma nessuno si prende cura di Lui.
Il Nazareno è l’altro per eccellenza, il diverso per antonomasia. Forse nessuno più di lui è stato straniero in questo mondo. Aveva i tratti somatici del suo Paese ma parlava senza essere capito. Diceva cose dell’altro mondo, il suo programma era chiaro: «Beati gli afflitti, beati i poveri, beati i miti, beati i costruttori di pace, beati i perseguitati…». Un diverso. Il Nazareno era l’epilogo di una lunga storia di “stranieritudine” iniziata con l’esodo biblico e il cammino verso la terra promessa. Il monito di Dio che accompagna il suo popolo è inequivocabile e si fonda su un sentimento umano, che altri direbbero di empatia: «Tu che hai sperimentato la schiavitù in Egitto, tu che sai che cosa vuol dire essere stato oppresso e aver patito, tu allora quando ti troverai di fronte allo straniero, ricordati di essere stato tu stesso straniero e di non fare allo straniero quello che tu hai patito da straniero ma di comportarti con lui come io mi sono comportato con te, cioè con la mia stessa compassione».
Ma di White Christmas e di natale consumistico qui c’è ben poca cosa. Ecco perché il Nazareno è sempre uno straniero, è sempre clandestino. Fabrizio De André canterebbe così: «Guardate la fine di quel Nazareno, e un ladro non muore di meno».
Francesco Comina (1967), giornalista e scrittore.
Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e
ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a
"L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e
riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato
assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino
Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La
testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il
jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo
Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui
la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis
Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis
Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle
strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine).
Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano.