Mi capita di riassettare l’archivio proprio nei giorni in cui la Cina sorpassa il Giappone e si piazza come seconda potenza economica mondiale alle spalle degli Stati Uniti.
La busta «Cina» contiene appunti e ritagli obsoleti, esausti lubrificanti da scrittura ormai da buttare, cui do un’ultima occhiata inquisitoria prima di condannarli alla scatola blu della raccolta differenziata. Per quanto siano vecchi di vent’anni o poco meno, databili tra il 1989 e il 1993, cioè a partire dalla repressione di piazza Tienanmen, sono tutti profetici. La travolgente spinta economica in atto lascia già presagire gli sviluppi. Un circostanziato reportage dell’Europeo del settembre 1993, intitolato «Così il dragone diventerà Paperone», analizza il fenomeno:
Dove fino a ieri regnavano le guardie rosse oggi si incontrano giovanotti di nemmeno trent’anni che dal nulla sono riusciti a fondare aziende da 500 dipendenti e hanno già accumulato patrimoni miliardari.
E azzarda il pronostico:
Un miracolo economico su cui scommettono gli esperti del Fondo monetario internazionale e che porterà nel 2010 il più grande paese del mondo in testa alla classifica dei più ricchi.
Scommessa vinta. Pronostico azzeccato.
Sorpreso da tanta lungimiranza, rallento il repulisti. Mi appunto titoli e trascrivo qualche frase. Ed è con quegli scampoli ingialliti che costruisco quel che scrivo qui di seguito. All’inizio degli anni Novanta, la lunga marcia del capitalismo cinese è già a buon punto. Tredici anni prima, a Shenzen, una cinquantina di chilometri da Hong Kong, è sorta la prima «zona a economia speciale della Repubblica Popolare, una sorta di laboratorio in cui sperimentare le ricette del business per applicarle a tutto il Paese. E lì i giovani magnati rossi muovono i loro primi passi, tra delinquenza e prostituzione. Meglio quelle del dissenso, ragiona cinicamente Pechino. Il nuovo corso preferisce chi traffica con l’eros a chi s’impiccia di res pubblica. Nei primi sei mesi del 1993, la sola Pechino sforna settecentomila libri erotici.
Gli operai con la bici e la casacca alla Mao sono bestie rare. Macao, la Las Vegas d’Oriente, ancora colonia portoghese, non teme la restituzione al governo di Pechino, che avverrà il 20 dicembre del 1999. La trepidazione maggiore riguarda il ricongiungimento di Hong Kong, coriandolo britannico dal destino scritto da tempo, in agenda per il 1° luglio del 1997. Nel romanzo Ultimi giorni a Hong Kong, uno scrittore lucido e pratico di Cina come Paul Theroux delinea attorno alla fatidica data uno scenario da incubo con il protagonista, cittadino britannico che cerca di resistere alle avance prima persuasive e poi dissuasive dei nuovi padroni, costretto infine a scappare in mutande. E non in senso traslato.
Nella lunga vigilia dell’annessione, sottoscritta da Cina e Gran Bretagna nel 1984, grattacieli sempre più alti, su cui brilleranno presto le stelle rosse, fanno ombra agli sampan nella baia, malinconica ancora del passato al precario presente. In città i cinesi sono sette milioni, gli inglesi 20 mila. La densità demografica è di 110 mila abitanti per chilometro quadrato. Shenzen si è ormai appiccicata alla sorella separata che le ha fatto da modello. Ma la metropoli imbottita di tecnologia continua a curarsi con rimedi da sciamani, corna di cervo ai cetrioli di mare. Medicine afrodisiache. Il potere economico è poca cosa se non è coronato dalle potenza sessuale. È la componente magica di una medicina che è riuscita a conquistarsi titoli di merito in altri ambiti, come l’agopuntura e cerca succedanei della penicillina nella zucca serpente. Mentre la farmacopea ancestrale resiste, vengono spazzati via gli antichi quartieri dov’era nata e i mercati in cui veniva smerciata.
In attesa dell’invasione, nel 1992 Hong Kong decreta la demolizione della Città Murata, il quartiere formicaio che per quasi un secolo è stato il simbolo della zona più sordida ma anche più affascinante dell’ex protettorato.
Continua intanto a galleggiare nello spazio della chiacchiera planetaria la leggenda che la muraglia cinese sia l’unico manufatto terrestre visibile dalla luna. L’hanno detto gli unici astronauti che sono stati sul satellite pallido? No, è una balla del marketing turistico cinese di cui non sono mai stati pagati i diritti d’autore a nessuno.
Mentre Pechino e Shangai fanno da vetrina a un Paese in gran parte sconosciuto, trapelano le notizie sui costi dello sviluppo. Fabbriche chimiche e concerie esalano vapori pestilenziali e hanno avvelenato ogni corso d’acqua. Si costruiscono dighe che svuotano le campagne. Il rispetto della natura si limita e si riassumine nella difesa a oltranza del panda. Pena di morte per chi uccide l’orso bianco e nero. Nel frattempo, dalle viscere putride della terra sono usciti, turandosi il naso, gli oltre cinquemila guerrieri e cavalli dell’armata di terracotta di Xian. La cultura dell’ex impero celeste continua a essere maliarda.
Nel 1993, Furio Colombo compie un lungo viaggio in Cina insieme a Umberto Eco di cui dà conto in una serie di quattordici dispacci pubblicati dal quotidiano La Stampa.
Il più curioso è proprio l’ultimo, che ha come teatro l’istituto di cultura di Pechino. Dove i due italiani sono invitati a parlare sul tema «Modernità e post-modernità in Occidente e in Oriente»» insieme a un paio di studiosi cinesi. Colombo se la cava e miete applausi asserendo che Pechino è una grande metropoli moderna, Eco la mette giù un po’ più dura,m come una specie di marco Polo alla rovescia. «Io sono un viaggiatore», dice l’autore del Nome della rosa.
I viaggiatori portano notizie. Quali notizie? Notizie dal luogo da cui provengono. Io provengo dall’Europa. Vi dico che nella ex Jugoslavia si uccidono tra popolazioni vicine, in Germania espellono gli stranieri, in Italia vogliono dividere il Paese. E i politici, tutti, in tutto il nostro continente, dovrebbero essere mandati a casa, perché non capiscono ciò che sta succedendo.
Gli risponde la professoressa Yed Da Yu, docente di letteratura comparata a Pechino.
L’Europa di cui mi parlano Eco e Colombo mi è del tutto nuova e sconosciuta, mi fa paura. Lasciatemi all’Europa del mio unico viaggio. Ricordo san Pietro, il Duomo di Milano, le gondole di Venezia. Tutto era bellissimo. Non è più così? Rispondo che di illusioni si può vivere. E voglio restare con le mie illusioni.
Molto più interessante, in quanto fondate su un’esperienza appena vissuta anziché su cartoline turistiche, l’intervento del giovane antropologo Wang Bin, che ha accompagnato Eco e Colombo per tutto il viaggio.
Ecco la mia esperienza di modernità dal punto di vista di cinese. Per voi diretti a Nord, avevamo comprato tutte le cuccette di un vagone letto. Ma un gruppo di anziani giapponesi, tutti uomini, forse gente d’affari, aveva pagato lo stesso vagone per lo stesso viaggio, che dura un giorno e una notte. Quando siete saliti sul treno, come ricorderete, vi ho tutti chiusi dentro. I giapponesi battevano furiosamente alle vostre porte. Lo stesso vagone letto era stato venduto due volte. Qualcuno aveva incassato, e i giapponesi furibondi, non volevano arrendersi. Ma sono venuti i giovani ferrovieri e li hanno costretti a passare la notte seduti nel vagone di terza classe. Qui la storia incontra il moderno. Perché tutti dalla vostra parte, i ferrovieri? Perché i giapponesi erano uomini, erano anziani, dunque probabilmente tutti ex combattenti che hanno invaso e distrutto la Cina. O almeno – in base a ciò che hanno studiato e a ciò che hanno visto al cinema – così devono avere pensato i ferrovieri cinesi.
Strano modo di spacciare per modernità un presunto rigurgito revanscista, di trasformare un imbroglio in nemesi storica con i ferrovieri in veste di guardie rosse. Visto che non c’è modo di intendersi, Umberto Eco decide di battere una pista a lui più congeniale, quella della brillante erudizione. E all’università di Pechino si intrattiene sul tema dell’unicorno e del drago.
Gli europei medievali e rinascimentali hanno sempre creduto fermamente nell’unicorno. Non avendone mai visti, si sono messi in testa che vivesse in qualche lontano Paese esotico. Marco Polo è tornato dalla Cina dicendo di avere visto l’unicorno. Probabilmente aveva visto un rinoceronte.
Lungo treno cinese lanciato in corsa verso la supremazia mondiale, ci sono ancora carrozze di terza classe in cui sono rinchiuse minoranze scalpitanti. Come gli uiguri di religione musulmana e i tibetani di fede buddista. Spine nel fianco tra le più dolorose. Vent’anni fa, i tibetani di Lhasa chiedevano foto del Dalai Lama ai turisti occidentali che visitavano il Palazzo del Potala, il guscio vuoto della teocrazia lamaista.
Non sappiamo che cosa chiedano oggi. La busta-urna che custodiva il futuro della Cina non contiene altro. Renata Pisu è in pensione e da tempo non scrive di Cina vista. I giornalisti in servizio preferiscono scodellare dati di Pil al posto delle pillole che ci permettono di capire i grandi fatti e le inevitabili traiettorie.
Ivano Sartori, giornalista, ha lavorato per anni alla Rusconi, Class Editori, Mondadori. Ha collaborato all’Unità, l’Europeo, Repubblica, il Secolo XIX. Ultimo incarico: redattore capo a Panorama Travel.