Che cosa succederebbe se un bel giorno ci ricordassimo che un po’ razzisti lo siamo stati qualche volta anche noi, in Italia? Eppure tanti italiani avevano salvato ebrei dai rastrellamenti nazisti e non tutti avevano capito il senso di quelle leggi razziali calate dall’alto nel 1938. Non eravamo razzisti nemmeno qualche anno prima, durante l’impresa etiopica, nonostante i gas asfissianti sulle popolazioni invase, con la propaganda che ricordava la nostra missione di civiltà e “Faccetta nera” che sembrava una canzone d’amore per la bella abissina… Siamo fatti così, si può essere anche razzisti violenti e gentili.
E oggi? Dovremmo diventare razzisti ora perché un popolo nero sembra volerci a sua volta colonizzare, mentre sono solo ondate di disperazione che arrivano a chiedere aiuto, ma senza che i loro diritti possano essere almeno qui da noi rispettati?
Di qui le reciproche accuse tra destra e sinistra (siamo troppo in conflitto tra noi per prendercela con gli altri). Gli uni dicono che la legge Bossi-Fini non viene applicata adeguatamente e che i servizi sanitari al Sud non funzionano (vedi alla voce “federalismo”!), gli altri ribattono che è proprio la legge sbagliata a produrre le conseguenze nefaste e che al sud lo Stato fa finta di niente permettendo che si agisca nell’illegalità.
Del resto nessun calabrese, nessun rosarnese pensa di essere, in buona fede, razzista. Chi è del sud sa bene di essere stato considerato, a suo tempo, non di rado, sottosviluppato e inferiore. Denigrato non solo all’estero ma nel suo stesso Paese, dove la Questione meridionale in centocinquant’anni non è mai stata risolta. E l’immigrato del sud era spesso straniero anche a Milano. Queste cose non si possono dimenticare, anche se sono avanzate le generazioni.
Ma la malattia vera dell’Italia, che non si riesce a curare, resta sempre il fenomeno mafioso. Se ne ha a volte talmente timore da minimizzarlo assumendone in un certo qual modo la responsabilità, al punto da far confondere il comportamento onesto con una consuetudine tipicamente mafiosa. A volte siamo talmente assuefatti (e disperati) da pensare che sia normale (tanto lo Stato è assente) assumere o accettare certi atteggiamenti illegali. Altrimenti come si mantiene la famiglia e un tenore di vita dignitoso? E poi l’umanità, si sa, è quella che è, soprattutto in Italia (autodenigrazione colpevole… ci caschiamo spesso). Se poi quelli che arrivano, più disperati di noi, si adattano, non possiamo essere tutti contenti? Non si tratta di essere razzisti, basta che i più poveri capiscano che se vogliono sopravvivere devono accettare anche loro la situazione.
Perché allora poi sparargli addosso? Perché umiliarli? Qualcuno sarà pur stato, a provocare quella reazione un po’ eccessiva che pure Saviano, reduce dall’esperienza di Castel Volturno, ha chiamato di protesta! Ma chi è stato a incominciare? Uno o due balordi soltanto hanno scatenato tanta rabbia? Se il tessuto mafioso si è insinuato tra noi e dobbiamo conviverci… forse alla fine è meglio essere presi per razzisti, non vi pare?
Giusy Frisina insegna filosofia in un liceo classico di Firenze