Una “stabilità” insostenibile
Il poeta-scrittore uruguayo Eduardo Galeano dice che “siamo tutti mortali fino al primo bacio e al secondo bicchiere di vino”, ma occorre aggiungere rime. Siamo tutti mortali fino al giorno in cui la repressione perde ogni consonante e ogni vocale, perché una generazione intera ha reagito per riprendersi la vita. Come i mangianastri, le rivoluzioni parevano reliquie del passato. In questi tempi di cambi vorticosi, la parola d’ordine nel Nord Africa come nel Medio Oriente, regioni troppo care agli interessi occidentali, era diventata la più immobile di tutte: la “stabilità”. Funzionale per i mercati, agghiacciante in termini di costi umani e sociali. Stabilità: moneta di scambio fra attori “legittimi”, “razionali”, e l’amo per pescare finanziamenti perfino nei centri di ricerca. Quei centri che, invece, dovrebbero individuare nuovi significati per parole antiche, come diritti. Attorno ai diritti, si sa, è doveroso che ci sia un movimento.
Versi retorici e malinconia di libertà
Anni fa, un amico tunisino aveva accolto con una grassa risata il mio entusiasmo per la rivoluzione retorica di Obama. Gli ricordavano dei versi coi quali rimbambiva le ragazze europee che reprimevano istinti romantici. Un successo Shengen. “È facile parlare di libertà, di uguaglianza, e di amore eterno. Basta aprire la bocca”. Accendeva nervosamente una Diana rossa quando, in vena di scherzi crudeli, gli chiedevo “e chi credi che vincerà le elezioni in Tunisia?”. Scuoteva la testa, sbruffando, guardandosi gli stivali. Pensavo “forse esagero, accidenti”. Sapevo però che chi si cucca una dittatura tende ad avere un senso dell’umorismo piuttosto cinico. Speravo di non offendere, scivolando su questo scherzo che pretende di ritrarre una nazione quieta nel tempo, sotto l’Oppressore. In realtà, il mio era un banale dribbling ai suoi scandalizzati “perché” circa l’anomalia italiota.
Il mio amico pensava al suo futuro come ingegnere in telecomunicazioni in Europa: una borsa di studio dopo l’altra, un lavoro favoloso dopo l’altro. E poi, un amore eterno, colto a casa. Ma in Tunisia non vedeva il proprio futuro. E doveva pensare a se stesso come un atomo scollegato da un corpo. Spegneva la Diana rossa con un commento gelido: “Cosa ci vorrebbero insegnare, le democrazie europee, quando appoggiano politicamente e commercialmente i dittatori nei nostri paesi? E quando restringono il diritto di asilo politico di chi prova a scappare dalle torture?”. Guardavo il cielo, senza una nuvola. Il cambio si avvicinava silenzioso, a nostra completa insaputa. “Chissà se mi toccherà vedere quel giorno, in cui non si avrà paura di morire”. Chissà. Alle volte quei giorni arrivano. È lecito crederci. I suoi occhi ora bruciano di gioia. E tace con un brindisi l’amarezza d’essersi convinto che un cittadino libero ha un biglietto di sola andata verso l’Estero in tasca. Come diceva il poeta francese Edmond Haraucourt, partir c’est mourir un peu. C’est mourir a ce qu’on aime.
Felicemente più complesso di come ce lo vendono
La rivoluzione tunisina ha scoperchiato i vecchi discorsi. Non c’entrano gli stemmi religiosi, non è eterodiretta, non si tratta di una montatura. È cominciata dal peccato, commesso da un ragazzo, Mohamed Bouazizi, che si è appiccato fuoco in pubblico, suicidandosi. Il Mufti della Tunisia, alleato con la dittatura, ha commentato, scarno, “nessuno dovrebbe pregare per la sua anima, perché è un peccatore”. Ma la maggioranza dei tunisini non si è fatta addomesticare da precetti morali “haram/halal” (“peccato”/ “permesso”) slegati da un contesto sociale e miranti ad alimentare l’apatia politica. La maggioranza dei tunisini aveva ben chiaro che chi non pretende giustizia, non l’avrà mai. Considerazioni antiche come l’umanità. Lo storico rivoluzionario Al-Ghefari le plasmò a modo suo non ieri, bensì nel settimo secolo, chiedendosi perché gli affamati non si ribellassero.
Le idee e le fedi di per sé non innescano le rivoluzioni o i cambi sociali. Sono le condizioni sociali che generano nuove dinamiche. La maggioranza marginalizzata in Tunisia non è stata scossa dai discorsi religiosi né da discorsi anti-imperialisti. Si è ribellata perché le condizioni sociali hanno prodotto questo momento. Nessuno slogan religioso ha infiammato una rivoluzione “incomprensibile”, dettata da altri dèi; le foto del Che Guevara erano per le piazze di Tunisi. I manifestanti non esigevano la shari’a, bensì opportunità di lavoro, qualità di vita, libertà civili. In prima linea nelle strade, avvocati e giudici, non leader religiosi. Una rivoluzione laica, che ci obbliga a riesaminare tutte le presupposizioni prodotte dalle industrie mediatiche ed accademiche riguardo il mondo.
La costruzione del consenso attorno alla “eccezionalità islamica”, ad esempio. Prima degli eventi tunisini, si sosteneva che l’ “islam” fosse incompatibile con la democrazia, pertanto era impensabile che nelle società a maggioranza musulmana si affermassero stati moderni, civili, democratici. Sono stati impastati mediaticamente i termini “società arabe” e “l’islam estremista”, creando una realtà virtuale che paradossicalmente ha reso felici i vari attori autoritari, che adorano zittire le società civili. L’intruglio era pronto, e in tanti se lo sono bevuti ad occhi chiusi. Senza chiedersi, ad esempio, se risultasse formulabile una domanda analoga: il cristianesimo e il giudaismo sono consistenti con la democrazia?
Raccontata così, pareva proprio che queste “società musulmane” non avessero alcuna altra preoccupazione al di fuori dell’enfatizzare la propria “musulmanità”. Non conoscevano la fame, la felicità o la tristezza. Questo “Islam” li completava. Eppure, a parte i fondamentalisti, nessuno crede che esista un qualcosa di sostanziale chiamato con la lettera maiuscola, “Islam”. Altrimenti, come si potrebbe spiegare che l’islam dell’Arabia Saudita è così diverso da quello di Al-Sadr City a Baghdad, e che quello di Peshawar non ha nulla a che vedere con quello di Casablanca, per non parlare dell’abisso fra l’islam di Teheran rispetto a quello di Instambul? Occorrerebbe visitare queste città, per capacitarsene. Ci si chiederebbe allora: se l’ “islam” ha forgiato queste società, perché ci sono degli “islam” diversi in ogni società? Non dovremmo quindi analizzare le società, e non le religioni prevalente in esse? O studiamo forse le società occidentali leggendo la Bibbia?
Ora sappiamo che ci è precluso un enorme mondo di possibilità alternative alle tirannie vs. i fondamentalismi religiosi. Sappiamo poco e generalizziamo come se fosse ancora lecito farlo. Siamo all’oscuro delle condizioni di vita in cui vivono paesi sotto dittature laiche, come è stato il caso della Tunisia. Non sappiamo nulla dei giovani che là, pretendono la democrazia, offrendo il petto ai fucili, con un coraggio da Primo Mondo. Non sono entrati in nessuna delle povere categorie che maneggiamo da un decennio. Non hanno aspettato di essere “liberati” da ambigue forze straniere. Non hanno aspettato che il dittatore li seppellisse, avvolto (lui) nella bandiera. Non hanno nominato il nome di Dio, né quello che rassicura, né quello che intimorisce, né il tuo, né il mio. Dio dormiva sogni di pace. Ma invece hanno scelto un verso di Abul Al-Qasim Chebbi, il famoso poeta della lotta contro l’occupazione francese: “Quando il popolo un giorno desidera vivere/Il destino deve rispondere”. Loro si sono alzati in piedi e hanno rinunciato alla paura. In loro si sono risvegliati gli immortali di tutte le generazioni: quelli che la giustizia la pretendono. Altro che la “stabilità” della morte civile.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).