Due giorni in mare, su una carretta con scarse aspettative di vita. Quarantott’ore di navigazione, la costa all’orizzonte e la notte che ti circonda. Fitta e cupa come la disperazione. Poi è un attimo. Un incitamento, una spinta, l’acqua che ti avvolge più nera del cielo che ti ha abbandonato. Allora non resta che nuotare, tirarsi avanti un metro alla volta finché i muscoli non bruciano. E poi ancora, con gli occhi pieni di sale, agognando null’altro che un pugno di sabbia che sostenga il tuo piede. Andare avanti, con la morte al fianco, puntando a quell’unica striscia di terra. Isola di speranza in questo mare che parla una lingua che non è la tua.
Campobello di Mazara, provincia di Trapani, terra di Sicilia. Partiti in 17, in 14 hanno raggiunto terra, abbandonati tra i flutti da una barca che ha deciso di far retromarcia ben prima della riva. Gli altri 3 li hanno ripescati il giorno dopo, nei pressi della foce del fiume Arena, gonfi d’acqua e speranze sfumate.
Un oceano più in là. Stato del Chiapas, Messico.
Due camion Kenworth, uno dietro l’altro, avanzano sulla carretera che va da Tuxtla Gutiérrez a San Cristóbal de Las Casas. La coppia di mezzi passa da un posto di blocco. Con l’ausilio di scanner a raggi X, forniti dagli USA per contrastare i traffici illegali, i poliziotti ispezionano il carico. Grande è lo stupore quando, invece della solita partita di armi o droga, le macchine mostrano all’interno dei rimorchi una fila di sagome umane, una compressa sull’altra. 513 clandestini divisi su due mezzi, nascosti dentro scatoloni, aggrappati a una rete per mantenere l’equilibrio, disidratati e boccheggianti per il caldo infernale e la poca aria che filtra dai buchi fatti nel tetto. Prevalentemente centroamericani, a cui si mischiano cinesi, indiani e nepalesi. Uomini, adolescenti, donne incinte, bambini. Tutti in viaggio verso nord, tra le braccia di quel vicino ricco e arrogante che, se fortunati, può concedere più di quanto ci si è lasciato indietro. 7000 dollari, biglietto sola andata.
Due cartoline dal pianeta dell’immigrazione, dal suo lato più disperato. Persone, famiglie, villaggi interi che abbandonano la terra dei propri padri in cerca di qualcosa che abbia il sapore della dignità e del futuro. Vocaboli che a casa spesso suonano come utopia.
Il dramma dell’immigrazione è una storia che risulta ormai banale, tante le volte che è stata ripetuta. Qualcosa che dovrebbe essere assodato, chiaro nella sua sfaccettata semplicità in un paese quale l’Italia, che da decenni affronta il fenomeno. Ma così sarebbe troppo facile. Sempre identici sono anche i muri di meschinità che ogni volta si ergono, uguali i plotoni di piccoli uomini che si armano di paura e pretendono la gogna per l’invasore, troppo ottusi e stupidi per poter serbar memoria di quando i loro bisnonni erano “gli altri”. Misere anime che cercano sicurezza nelle parole di leader che garantiscono loro la protezione dal barbaro di turno. Come se le parole avessero mai potuto fermare la risacca della storia.
Chi è ateo ha un modo per definire l’anima: quell’unica parte del corpo umano che può ribollire. E davvero ci sono cose che fanno rimescolare il sangue. Tra queste le recentissime parole di Umberto Bossi, l’ex moderato dell’ultim’ora. L’uomo che, ricorderà chi ha un briciolo di memoria storica, affermava borioso: “Il tricolore lo uso per pulirmi il culo”. Il Bossi odierno è un uomo cambiato, uscito da un colloquio ad Arcore che, per potenza di conversione, ricorda quello tra Attila e papa Leone I. Il gutturale generale padano è ora appiattito sulla linea berlusconiana, sostiene che “i milanesi non daranno la città in mano agli estremisti di sinistra. La Lega si impegnerà a non lasciarla ad un matto che vuole riempirla di moschee e zingari”. Ritratterà qualche aggettivo, ma sul momento, non sazio, continua con velleità da Lega d’altri tempi: “Milano è una città che rinasce, non diventerà una zingaropoli secondo i progetti di Pisapia”.
Ma che siano zingari, musulmani, albanesi, marocchini, messicani o cinesi in realtà poco importa. Quelli citati dal leader del Carroccio non sono altro che i capri espiatori d’ultimo modello per le ancestrali paure d’Italia 150. Quei timori che serpeggiano tra chi nemmeno si rende conto che la migrazione dei popoli è il filo rosso che lega la storia umana. Bossi non sputa su delle categorie di persone ma su delle tendenze inarrestabili.
Forse nemmeno si accorge di inveire su uomini trattati come bestie. Peggio delle bestie. Che un carico di maiali frutta all’arrivo, va trattato decentemente, mentre gli esseri umani liquidano alla partenza. In contanti. Ma si tratta di gente che probabilmente nessun membro dell’apparato leghista si è mai preoccupato di fissare negli occhi, che non ne vale la pena. Ci sono posti più sicuri per osservare il proprio riflesso.
Bossi è un esempio, ma di persone del medesimo calibro il pianeta è affollato. Uomini che, ciechi di fronte ai fatti – ai fati – di altri uomini, fanno della propria ottusità bandiera. Vessillo che sventola in una crociata da sciacalli, destinata a conquistare un pugno di voti. Mentre ad un passo, sulle prime pagine dei giornali, la gente muore davvero. Affetta da un’incurabile, muta malattia chiamata disperazione. Se questa è demagogia valutatelo voi.
Eliano Ricci, classe '85, è laureato in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Bologna, lavoratore mediamente precario e musicista. Si interessa di politica, cultura alternativa e pubblicità.