Ci sono momenti in cui la migliore delle proteste è quella fatta davanti allo specchio. Chiunque ha abitato o viaggiato nell’Italia del sud, non può non aver assistito alla scena di ordinaria illegalità che sto per descrivere. Una mattina d’agosto sulla strada per il lido di Noto. Come ogni giorno, mentre guido l’auto a noleggio che mi porta a spasso in questa vacanza siciliana, vedo sfrecciare davanti a me uno scooter con a bordo due adulti e un bambino, tutti e tre rigorosamente senza casco. Ingiustificabile incoscienza di chi, come tanti, oltre ad infischiarsene allegramente delle regole e delle leggi, mette a rischio l’incolumità di un minore. Non saprei dire quanti anni avesse quel ragazzino. Quel che so è che il codice della strada prevede l’obbligo ai conducenti e agli eventuali passeggeri di ciclomotori e motoveicoli di indossare e di tenere regolarmente allacciato un casco protettivo conforme ai tipi omologati. Chiunque viola tale norma è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 74 a euro 299. È inoltre previsto, come sanzione accessoria, anche il fermo amministrativo del veicolo per 60 giorni (diventano 90 giorni nel caso in cui la stessa violazione venga commessa per almeno due volte nel corso di un biennio)”.
Ma non è finita. Proprio mentre scuoto il capo per segnalare (a me stesso) l’assurdità di certi comportamenti, ecco che all’improvviso, sul lato opposto della carreggiata, scorgo una pattuglia dei Carabinieri: lo scooter prosegue tranquillamente la sua marcia e, con altrettanta tranquillità, la pattuglia rimane lì dov’è.
Nonostante 150 anni di Unità, certe “differenze” restano apparentemente inalterabili: quella a cui ho appena assistito è una scena di ordinaria (ed impunita) inciviltà. L’ipocrisia vacanziera ha indotto il sottoscritto ad evitare di compiere il proprio dovere di cittadino: prendere la targa dello scooter e quella dell’auto dei Carabinieri, guardare l’orologio, segnarmi il chilometro della statale su cui viaggiavo; infine recarmi nella più vicina caserma per denunciare la scena a cui avevo appena assistito. Ma ciò significava rinunciare come minimo a mezza giornata di mare… Pertanto ho fatto un tipico ragionamento italiano: “Perchè rischiare di rovinarsi la vacanza per fare l’avvocato delle cause perse (in partenza)? Che utilità può avere il mio zelo di cittadino abituato ad essere multato per ogni minima infrazione del codice della strada, quando è chiaro a tutti che qui al sud, da sempre, fanno quello che gli pare?”. Ebbene sì: me ne vergogno un po’, ma è questo grosso modo il pensiero che mi ha fatto desistere.
Ora però il punto è un altro e, naturalmente, non riguarda il caso specifico. In questa estate in cui una delle parole più inflazionate è “equità”, viene spontaneo farsi delle domande: è tollerabile che certe infrazioni che al nord sono pesantemente punite, al sud vengano permesse? Forse, in mezzo a qualche decreto fantasma, il governo leghista ha approvato un codice stradale valido solo da Roma in giù? E se così non è, cosa ne pensano (e cosa stanno facendo per affrontare il problema) i capi/comandanti di Carabinieri e Polizia? Perché i membri delle forze dell’ordine che operano al sud si sentono autorizzati a chiudere entrambi gli occhi, mentre al nord ne tengono costantemente aperti almeno quattro? Qualcuno gli ha ordinato di fare così? O si tratta di una “elasticità” autogestita?
Qualche spiritosone potrebbe rispondere che “al sud le forze dell’ordine hanno compiti ben più gravosi che quello di fare le multe…”. Anche questa, in effetti, è una risposta molto italiana. Eppure il tema non è così facilmente aggirabile. A parte il fatto che anche al nord, come ormai tutti sanno, le forze dell’ordine sono impegnate quotidianamente nella difficile opera di smantellamento delle mafie e delle cricche, non si capisce per quale motivo a una donna sia assolutamente vietato entrare in una delle belle chiese barocche della Trinacria con una scollatura, mentre nessuno – né preti né sbirri – si scandalizza per il malcostume di girare in moto senza casco. Il Ministro degli Interni (peraltro leghista!) non ha nulla da eccepire in merito? Di chi è la responsabilità della mancata applicazione, su tutto il territorio nazionale, del codice della strada?
Io per primo, se potessi, sarei ben felice di fare un giro in moto senza casco. Avendo la fortuna di possedere ancora tutti i miei capelli… mi si consenta di confessare questa debolezza: non avendo i soldi per un eventuale trapianto, mi piacerebbe tanto sentire ancora il vento che attraversa la mia chioma, prima che sia troppo tardi… E se questa tolleranza nei confronti di certe microillegalità servisse in realtà a noi “padani” per sfogare sui “terroni” le nostre frustrazioni? Davvero le uniche cose che ci uniscono, dalle Alpi a Lampedusa, sono l’evasione fiscale, gli “azzurri” e l’inquilino del Quirinale? Non ci credo; e se anche fosse ciascuno/a di noi dovrebbe fare di tutto per cambiare questa triste e apparentemente immutabile condizione. Sì ma come?
Se i tanti cittadini onesti (“coglioni” direbbe il nostro presidente del Consiglio, da sempre impegnato a dare il buon esempio…) cominciassero a denunciare sistematicamente questi episodi di microillegalità, forse qualcuno dovrà assumersi qualche responsabilità. E forse, prima o poi, riusciremo a far sì che i parlamentari disonesti – a prescindere dalle indagini giudiziarie – imparino a fare i conti con un sentimento sempre meno frequentato: la vergogna.
Finché, invece, turisti pigri come chi scrive continueranno a limitarsi ad un’alzata di spalla o uno sconsolato scuotimento del capo, le cose non cambieranno mai. In questa vacanza siciliana mi è capitato di sentir citare una bella frase di Ludovico Corrao: citando l’amico Sciascia, il compianto sindaco di Gibellina (ucciso a coltellate dal suo badante) diceva che “se la Sicilia è irredimibile, comunque bisogna continuare a lottare, a pensare e ad agire come se non lo fosse. In questo agire “come se” c’è un margine di speranza e di riscatto, di speranza contro ogni logica speranza”. Una frase che, oltra a Sciascia, smentiva indirettamente anche Mussolini (“governare gli italiani è inutile”).
Parole che dovrebbero indurre tutti – non solo siciliani, calabresi o napoletani – ad una riflessione forse troppo umile per questi tempi barbari: non tutti i mali che stanno affondando l’Italia (perché quest’Italia sta affondando insieme al suo “piccolo” presidente piduista) sono imputabili alla cosiddetta Casta. Anzi. L’indifendibilità della nostra classe dirigente rischia, a volte, di essere un alibi per l’indolente popolo italiano, da secoli abituato a scaricare la responsabilità delle proprie disgrazie e delle proprie debolezze sul governo, sull’euro, sull’Europa, sulla Chiesa, sugli immigrati o sul destino cinico e baro: su tutti insomma, tranne che su se stessi. Un popolo, in fondo, ha la classe dirigente che si merita. Non resta che seguire il suggerimento di Ludovico Corrao applicandolo, però, a tutta la penisola: l’Italia forse è irredimibile, ma è giusto – nel senso di doveroso – “lottare, pensare e agire come se non lo fosse”. Proprio come teorizzava Kant (che infatti non era italiano) nella sua Critica della ragion pura.
L’alternativa? Perseverare nella comoda ma disastrosa ricerca di alibi e capri espiatori: lo sport nazionale più praticato dopo il calcio. Da nord a sud. Continuando a non capire la differenza tra una nazione e una Patria.
Riccardo Lenzi (Bologna 1974) è redattore e free lance. Ha scritto due libri: "L'Altrainformazione. Quattro gatti tra la via Emilia e il web" (Pendragon, 2004) e, insieme ad Antonella Beccaria, "Schegge contro la democrazia. 2 agosto 1980: le ragioni di una strage nei più recenti atti giudiziari" (Socialmente, 2010)