Vedo un trancio del programma di Luca Telese & Nicola Porro con Debora Serracchiani, Cirino Pomicino, alcuni del Movimento 5 Stelle, una giovane campana del Pdl e penso che ci sia qualcosa di buono in quel che dicono, ma l’ansia generata dai tempi televisivi, qualche accenno di battibecco, piccole furbizie, dialettiche e retoriche non ancora rodate lasciano un gusto amaro di incompiuto, di non detto, soprattutto di non approfondito. E poi troppi peana alla Rete che, come ricorda quella vecchia volpe di Pomicino, è un contenitore non un contenuto. Direi meglio: un veicolo, non un obiettivo. Ma persino la più bolsa trasmissione televisiva può dare un impulso alla riflessione. Perciò ne scrivo. A caldo.
I movimenti devono restare movimenti. Se la loro analisi sulla deriva della politica è giusta, non possono trasformarsi in partiti non appena viene installata un’urna elettorale. È un assioma, ma cercherò ugualmente di spiegarlo.
Quando organizzi una lista e chiedi un voto, anche se continui a chiamarti movimento di fatto diventi un partito. O perlomeno è così che ti percepisce l’elettorato, che a quel punto non capisce più che cosa ti distingua dai partiti. I più maliziosi interpreteranno l’approdo in Parlamento (nell’assemblea, regionale o nel consiglio comunale) come una sorta di opportunismo.
Lo capiranno però i partiti, fino a quel punto tanto aborriti, che avranno buon gioco a dire: embe’? Tutta ‘sta cagnara per sedervi accanto a noi? Per concludere con cinismo: allora siete come noi. Siete dei loro, non vi temono più. Sarete considerati dei monelli sotto controllo. Non importa che non sia vero, loro riusciranno a farlo sembrare vero. Cioè a distruggere la credibilità della vostra lotta. A farvi apparire incoerenti mentre siete stati solo ingenui. Qui non si tratta infatti di coerenza, ma dell’efficacia di un’azione politica.
Un movimento di indignati che decida di entrare nelle istituzioni, per esempio i «grillini», corre lo stesso rischio di ripercorrere la parabola della Lega: una lenta discesa dopo una fulminea ascesa. La Lega s’inventò dal niente facendo proprie alcune rivendicazioni, alcune anche giuste, occupando il territorio, parlando con la gente, praticando il porta porta a porta. La televisione assestò e ampliò il successo. Roma cominciò a corroderlo.
Quando Bossi e compagnia cominciarono a essere più romani che padani, dopo che Berlusconi riuscì a coinvolgerli nella sua battaglia personale, «il popolo padano» ha cominciato a fischiare i suoi dirigenti. E ha gridato allo scandalo quando sono spuntati il Trota, la moglie di Bossi baby pensionata, il cerchio magico e tutti i cortigiani del Senatùr beneficiati in cambio del sostegno a lui e famiglia. Il nepotismo di Casa Bossi è della stessa pasta di quello di Gheddafi e Mubarak, dinastico e cialtrone. Brianzoli e veneti si sono sentiti usati per dare una posizione a un anziano fanigottone e a tutta la sua ghenga. Imbrogliati come quei risparmiatori che mettono il loro tesoretto nelle mani dei finanzieri da bar.
Va da sé che il parallelo tra Lega e Movimento 5 Stelle riguarda solo l’atteggiamento prima ostile e poi malleabile verso le istituzioni, non i contenuti. Nessuno pensa infatti che quei calvinisti di Giovanni Favia e Andrea Defranceschi, consiglieri regionali a Bologna, e Fabrizio Crinò, consigliere comunale a Salsomaggiore, per dire i «grillini» a noi più vicini, ambiscano a crearsi posizioni di potere e ricchezze personali. Il loro approccio alla politica è monastico. Versano al movimento quasi tutto quel che ricavano dai loro emolumenti istituzionali. Anzi, si battono perché parlamentari ed eletti in regione si privino di una bella fetta delle loro prebende e dei connessi privilegi con l’unico risultato, per ora, di sbattere contro il muro degli interessi trasversali che cementano Pd e Pdl. Nessuno vuole rinunciare alle grasse pensioni, alle auto blu, ai vari benefit. Come finirà? Si adegueranno? Continueranno la loro battaglia in solitudine come carmelitani scalzi in mezzo ai pretoni con le pantofole? Scompariranno? Troppo presto per dirlo, siamo nella fase ascendente.
In ogni caso, questi sono solo aspetti marginali, contorno. Il piatto forte riguarda proprio la posizione degli indignati nei riguardi della politica intesa come prerogativa dei partiti e delle istituzioni. Che fare? Aderire o sabotare? Partecipare o restarne fuori? Sono domande cui non si può rispondere in via teorica o di principio, basandosi su gusti e idee.
Non è un dubbio di tipo morettiano del tipo: mi si nota di più se entro e mi metto in un angolo in silenzio o se resto fuori a sbraitare? E non è neppure, lo ripeto, una questione di coerenza. Non si tratta di fare i duri e puri. Si vuol solo sapere quale sia la strategia più diretta per arrivare alla meta. E cioè la rimozione di questa politica paralizzata per mettere mano alla soluzione dei problemi del Paese.
Quelli che vengono da lontano (ma da molto tempo sono fermi) diranno che con questi partiti e con queste istituzioni bisogna farci i conti. Gli uni hanno bisogno di rottamatori e le altre di aria fresca. Se non ti impegni tu, dicono i dirigenti di un partito impantanato nelle sue contraddizioni interne, nostri fratelli maggiori che siedono in parlamento senza costrutto da trenta o quarant’anni, lo faranno gli altri. I temutissimi Altri.
Questa risposta, all’apparenza realistica, concreta e più affidabile, ha in realtà il fiato corto. È una risposta che si accontenta del poco e rinuncia al grande raccolto, cioè al ribaltamento della politica così come oggi viene fatta da tutti i partiti coalizzati indipendentemente dal fatto che siano etichettati Pd o Pdl, Fli o Udc. Tolto Berlusconi e il suo codazzo, che ormai inquina il suo stesso partito, le differenze tra le etichette sono minime. E poi è da oltre quarant’anni che veniamo corteggiati perché si entri nei partiti a migliorarli. Molti hanno accettato, ma con quali risultati di rinnovamento se siamo ancora a questo punto?
I superficiali, per sottolineare l’inconcludenza dei movimenti, vi faranno pure notare che nel corso di vent’anni questo malcontento ha cambiato diverse volte nome senza mai assestarsi o arrivare a un risultato. Prima i grillini, poi il popolo viola, adesso gli indignati, per citare i più noti. Tutte mareggiate destinate a rifluire. Basta aspettare che si ritraggano per poter tornare a nuotare nelle acque calme della solita politica.
Ora, a parte che i risultati, a cominciare dagli esiti dei referendum di quest’anno, li hanno portati a casa i movimenti e non i partiti, se le mareggiate continuano vuol dire che i partiti non sono riusciti a risolvere i problemi e che questi dieci o vent’anni sono passati invano anche per loro. Vuol dire che non basta insediare una Serracchiani e votarsi a Matteo Renzi e ai suoi Rottamatori perché cambi qualcosa nel Pd.
Ricordate quando Nanni Moretti al termine di una manifestazione dell’Ulivo in piazza Navona a Roma, salì sul palco e, indicando i Fassino, i D’Alema e i Rutelli impalati accanto a lui, ringhiò nel microfono: «Ci vorranno due o tre generazioni prima che si vinca di nuovo, con questi dirigenti non vinceremo mai». Era il febbraio 2002, quasi dieci anni fa, e che cosa è cambiato? Nulla.
Quei dirigenti sono ancora tutti lì e pretendono di imbonirci con le solite chiacchiere. E tentarono di imbonire e rabbonire lo stesso Moretti: vieni a trovarci in partito, abbiamo bisogno delle tue idee. Qualcuno minimizzò: è un artista con quella bocca può dire quel che vuole. Qualcuno sbottò: merito rispetto. Oggi il partito gli ha trovato un posto rispettabile, fa il sindaco di Torino. E sempre Moretti e sempre dieci anni fa, rivolgendosi ai partiti ribadì il concetto: l’antipolitica siete voi. Chiaroveggente? No, semplice vedente.
Da quanto tempo il Pd e i suoi predecessori (a ritroso: Ds, Pds, Pci) hanno creduto di cavarsela cooptando i birichini di papà? Da tempo immemorabile e per molti anni ci sono riusciti. Con la tecnica della cooptazione hanno fagocitato tante belle teste e le hanno lasciate sonnecchiare alla Camera o al Senato. Utilizzavano personalità come Leonardo Sciascia e il magistrato Gerardo D’Ambrosio per acchiappare voti e poi se ne dimenticavano. Al partito non serviva la coscienza critica, ma il nome. Politica di marketing e di packaging. E fine anche di questa digressione.
Se i movimenti devono continuare a combattere le loro sacrosante battaglie tenendosi alla larga da partiti destituiti di ogni credibilità e da istituzioni che conciliano il sonno e intrappolano i sogni, come possono incidere sulla politica? Non si può sempre scendere in piazza. In piazza ci si va per manifestare un disagio e per presentare un elenco di rivendicazioni, non per costruire una linea o un programma. La piazza è una vetrina, non un laboratorio. Ma il punto è proprio questo: tocca forse ai movimenti dare la linea e stilare il programma?
Scrive il sociologo spagnolo Manuel Castells, riferendosi agli indignados: «Questi movimenti hanno effetti politici spesso importanti, ma non sono politici nel senso tradizionale del termine, non conquistano il potere. I movimenti cambiano la mentalità delle persone e i valori della società, sono fonti di creazione e di cambiamento sociale». E spiega meglio: «I partiti lavorano su quello che succede per gestire le istituzioni che reggono la vita sociale. Quando le istituzioni funzionano bene, sembra che il potere sia dei partiti e che tutto dipenda dai risultati elettorali. Ma quando aumenta la distanza tra i rappresentanti e i rappresentati,m quando il modello economico, ambientale, previdenziale o di vita entra in crisi, allora i movimenti diventano una fonte di rinnovamento, l’unico antidoto contro la sclerosi di una politica sottomessa alle forse razionali del mercato e a quelle razionali dell’avidità».
E con ciò siamo arrivati all’ombelico dell’attuale situazione, che è mondiale. E vediamo che i governi, quindi la politica, sono al servizio del capitalismo finanziario anziché, come suggerirebbe la parola, governarlo. La politica dragava i nostri voti per metterli a disposizione della finanza allegra, di sedicenti imprenditori e speculatori assortiti. Complici di questo dirottamento di fiducia sono stati anche le sinistre, dal Labour del ridanciano Tony Blair al Pd interessato ad avere una banca, a cementificare le città per dare commesse alle cooperative, a svendere il pubblico, a privatizzare a man bassa come apprendisti liberisti. Un coacervo di avidità e ingenuità da far paura, dal quale il maggior partito della sinistra italiana non riesce a districarsi.
Fino a che i partiti non si renderanno conto di essere un ostacolo ai cambiamenti, fino a quando non ammetteranno che non possono chiamare politica la loro ossessione per il raggiungimento o la conservazione del potere per una classe dirigente (romana o bolognese o fidentina, non importa), le cose andranno di male in peggio e aumenterà la sfiducia dei cittadini verso questo modo di intendere e di fare politica.
Fino a che questa politica non riuscirà a rendersi credibile difendendo l’ambiente, che non è un bel paesaggio ma il nostro habitat, mettendo sotto controllo le banche, tutelando la salute senza delegarla ai privati, riformando il sistema elettorale in modo da accrescere la trasparenza degli eletti e prevederne la revocabilità, fino a che non aumenteranno le risorse per l’istruzione e la casa, non c’è tregua che tenga tra partiti e movimenti. Anzi i partiti dovrebbero ringraziarli, ma davvero, per l’azione critica che esercitano. In nome della democrazia e senza guadagnarci nulla.
Ma se i tempi passano e i partiti non si ricredono, se non si sottomettono alle critiche, bisognerà che i movimenti ricorrano a metodi di insegnamento più severi. Per esempio, lo sciopero del voto. Rifiutare il ricatto: se non voti per noi è come se votassi per loro, anzi per Lui. Funzionava una volta, quando credevamo alle differenze tra i due schieramenti e forse non erano credenze infondate. Ora non possiamo andare a votare solo per buttare giù Lui. E comunque, dopo che lo avremo fatto, e se nel frattempo la politica (dei partiti) non avrà capito la lezione dei movimenti, saremo al punto di prima.
Dunque, cari signori dei partiti, con o senza di Lui, preparatevi a una lunga stagione di indignazione e di azione. Voi liberi di perdere tempo cincischiando sui programmi e sbudellandovi nei circoli pur continuando a chiamarvi compagni. Noi qui fuori ad aspettare che la smettiate. Per noi la parola compagno non è un retaggio ideologico, è un termine che indica che siamo uguali e chi fa politica professionalmente o quasi non è detto che sia più uguale degli altri.
Se siamo uguali troviamoci da qualche parte a discuterne. No, non diteci di venire in sezione, anche se adesso si chiama circolo. Ce l’avevano già detto quarant’anni fa. Possibile che non riusciate a cambiare registro? E poi abbiamo visto la fine che hanno fatto tanti di quelli che hanno accettato l’invito. Chi è rimasto ucciso dalla frustrazione per non essere arrivato dove avrebbe voluto. Chi bruciato da un’ambizione personale che non è riuscito a nascondere. Chi sepolto in un remoto ufficio di periferia. Chi trasformato da una carriera non troppo diversa da quella di un berlusconiano. Mi piacerebbe che ognuno di loro ci confessasse se ne è valsa la pena. Ma non diranno mai la verità, ci sono dentro fino al collo in quel sistema dove hanno sepolto speranze e velleità, hanno cresciuto (e sistemato) figli e mogli. Non direbbero la verità neanche con un’iniezione di Pentotal. Duri come il compagno G, elastici come Scilipoti. (is)
Ivano Sartori, giornalista, ha lavorato per anni alla Rusconi, Class Editori, Mondadori. Ha collaborato all’Unità, l’Europeo, Repubblica, il Secolo XIX. Ultimo incarico: redattore capo a Panorama Travel.