La banda della Uno bianca apre il fuoco contro il campo nomadi della Bolognina. Due morti, due feriti, 23 dicembre 1990. Sono tante le stragi e tanti i familiari delle vittime che resistono nel ricordarlo all'opinione pubblica. Ma esiste un limbo delle vittime dimenticate, rinnegate, sconosciute, che non ci fanno pietà. “In fondo se la saranno cercata…”
Riccardo LENZI – Quando a Bologna si sparava agli zingari
21-12-2009
Non è la prima volta che un dicembre italiano viene turbato da eventi tragici, più o meno sanguinolenti. Inverno 1990, un anno traumatico. Sono le otto del mattino della previgilia. Fa un freddo boia nel campo nomadi della Bolognina. Ghiaccio e fango. Poco distante, un anno prima, Achille Occhetto aveva preannunciato la fine del PCI. Da una Fiat Uno bianca scendono due gagi* italiani, si appoggiano sul tettuccio della utilitaria, prendono la mira e aprono il fuoco. Due ‘zingari’ restano uccisi: Rodolfo “Tatino” Bellinati (27 anni) e Patrizia Della Santina (34), madre di quattro figli. Feriti anche Lerje Lukaci (slava, 34 anni) e la piccola Sara Bellinati, anni 4. Celebrerà i funerali monsignor Stagni, ma il rito sarà zingaro: camera ardente all’aperto, davanti alla kampina** forata dai proiettili.
Oggi quel campo nomadi non c’è più. Al suo posto una lapide: “Tatino e Patrizia guidateci voi sulla strada della giusta rivendicazione dei diritti di tutti, colpiti da mani fratricide in quel mattino del 23 dicembre 1990”. Tatino e Patrizia, famiglia Bellinati. Impossibile: zingari con un cognome “normale”? Sì, come i celebri Andrea Pirlo e Charlie Chaplin: zingari doc, per chi non lo sapesse. Personaggi molto amati dagli italiani, diversamente dal loro popolo.
Il giorno prima, 22 dicembre, la banda di Alberto, Fabio e Roberto Savi aveva ferito due lavavetri (solo dopo quindici anni, sindaci e assessori “di sinistra” diventeranno famosi grazie a popolari ordinanze anti-lavavetri). Il 10 avevano assaltato un altro campo nomadi a Santa Caterina di Quarto, periferia est di Bologna: 9 feriti. Uccidere o ferire è questione di volontà per i fratelli Savi. Quando vogliono non lasciano scampo. Pochi colpi, precisi e professionali (“i miei figli sparano da dio”, dichiarerà orgogliosamente papà Savi, prima di suicidarsi), esplosi da sbirri insospettabili. Troppo a lungo insospettati. One shot, one kill: a colpo sicuro. Sicuri di farla franca. Spesso senza cavarci una lira. Perché? Col tempo si capirà che dalla Uno bianca non si sparava per i soldi. I parenti dei caduti lo capirono subito. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione tra familiari delle vittime della Uno bianca, lo sa bene: che bisogno c’era di ammazzare una brava persona come Primo, suo marito, e tanti altri cittadini indifesi? Uno di quelli che, quando Bologna era una città civile, non voltava lo sguardo davanti alle ingiustizie. Il 6 ottobre di quel maledetto 1990 aveva pagato con la vita il suo essere cittadino, meritandosi, suo malgrado, una medaglia d’oro al valore civile: “Testimone di una rapina, dopo aver sollecitato l’intervento delle forze di polizia, si dirigeva, con sprezzo del pericolo, verso l’auto dei malviventi per rilevarne il numero di targa. Nel generoso tentativo veniva, però, mortalmente ferito da colpi di arma da fuoco sparatigli contro dai rapinatori. Nobilissimo esempio di non comune ardimento e di elette virtù civiche.”.
Cosa è cambiato da allora? A cosa è servito tanto dolore? L’impressione è che essere onesti e/o essere “diversi” sia sempre più difficile in questa Italia. Pochi giorni fa, grazie alla legge Mancino, un bolognese di 39 anni è stato condannato a quattro mesi per aver gridato “negro di merda” a un camerunense. Anche i fratelli Savi sono stati condannati. Però potrebbero uscire presto dal carcere, anche grazie all’indulto del 2006…. Esercizio doloroso, se autentico, quello della memoria. Specie per chi ha dovuto ricostruire una precaria fiducia nelle istituzioni, dopo aver subito violenza da uomini dello Stato: poliziotti. Per tanti anni allo stadio gli ultras del Bologna cantavano in coro “arrestate i poliziotti: sono della Uno bianca”. È sempre la giustizia negata la cosa più insopportabile per le vittime di una strage.
Provate a calarvi nello stato d’animo prenatilizio che vivevano i ragazzi dell’ITC Salvemini in quel dicembre 1990. Si preparavano regali e settimane bianche, si erano riesumati dagli armadi tessuti pesanti e lanosi che, indossati, danno l’impressione di proteggerti. Dalle intemperie, certo, ma anche dal male. Poi una mattina sei lì in classe, in quella quasi periferia di Bologna che è Casalecchio di Reno, e all’improvviso di piomba l’inferno addosso. Per di più dal cielo: luogo nel quale, fino a pochi mesi prima, d’estate, i tuoi occhi giovani avevano cercato di intravedere un futuro di felicità. Una strage impunita, come tante altre, quella del Salvemini: quando c’è di mezzo la Nato non si può avere giustizia. Ricordate i cavi tranciati alla funivia del Cermis, undici anni fa? Chi ha pagato per quei 20 morti?
Bisognerebbe raccontarli questi fatti, con i nomi delle vittime e degli assassini, per essere credibili quando si pretende di mantenere il crocifisso appeso ai muri delle aule scolastiche. Altro che radici cristiane e ius sanguinis: Gesù è un clandestino, uno zingaro, una vittima, un povero, un escluso. Paradossi linguistici: zingaro significa “intoccabile”. Eppure nell’Italia cristiana è in atto una persecuzione razziale contro gli zingari. Una violenza istituzionalizzata e sostenuta da gran parte dell’opinione pubblica. Nella Milano del 2009 gli sgomberi sono sempre più brutali. Già nel 2007, dopo una escalation di aggressioni e spedizioni punitive ai campi Rom di Pavia, Milano e Roma, l’ebreo adulto Moni Ovadia fece una proposta: «i Rom sono l’unico popolo sulla faccia della Terra a meritare per davvero il premio Nobel per la pace: non hanno mai fatto la guerra ad altri popoli, non hanno mai avuto un esercito. Non conosciamo la loro storia, abbiamo persino dimenticato l’olocausto degli zingari». Un popolo senza esercito, senza patria, senza frontiere. Anarchico, senza il bisogno di definirsi tale. Con una bandiera, però: la ruota di un carro, a metà tra il verde della terra e il blu del cielo. E una lingua, che non contempla il verbo “avere” né il sostantivo “potere”. Troppo anarchici per essere “integrati”. Troppo liberi per sapersi difendere. Gli italiani li odiano: “tutti ladri, per natura”. Fabrizio De André invece li amava. Ladri? “Lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”.
L’ignoranza, appunto. Il peggior nemico della libertà, individuale e collettiva. Pensiamo male, parliamo ed agiamo peggio. Ignoranza della storia e del linguaggio. Non ricordiamo che i Rom, come oggi, venivano rastrellati nella Germania del ’42 e hanno avuto il loro Olocausto (almeno mezzo milione di zingari sterminati dai nazisti): loro lo chiamano Porajmos, e a quanto pare non è ancora finito. Ormai non sappiamo nemmeno distinguere rom da rumeno. Molti pensano siano la stessa cosa. Infatti si sente parlare di “romeni”: un popolo immaginario, che non esiste, non vota, ma ci fa tanta paura…
Già. Parole e parolacce non ci spaventano più. Ma chi non ha paura dei propri fantasmi? Al “potere” fanno molta meno paura le scarcerazioni di terroristi come Mambro, Fioravanti o i fratelli Savi. Forse perché troppi credono ancora alla risposta di Fabio Savi a chi, durante il processo, gli chiedeva cosa c’era dietro la Uno bianca: «la targa e i fanali», rispose beffardo.
Il 23 dicembre, almeno a Bologna e dintorni, dovrebbe essere una giornata di lutto e di memoria: una data, due stragi, a distanza di sei anni. La prima “strage di Natale” nel 1984 a San Benedetto Val di Sambro: bomba sul rapido 904, 15 morti, 267 feriti. Eppure ogni anno, in quelle ore, la città é alle prese con i doveri e i piaceri del Natale. Perché rovinare l’appetito parlando di morti, sangue e ingiustizie?
Mercoledì 23 dicembre 2009, ore 15.00, 19° anniversario dell’assalto al campo nomadi di via Gobetti: incontro pubblico nella sala auditorium del Museo della civiltà industriale (via della Beverara 123, Bologna)
*Gagi: chi non appartiene al campo Rom
**Kampina: roulotte
Riccardo Lenzi (Bologna 1974) è redattore e free lance. Ha scritto due libri: "L'Altrainformazione. Quattro gatti tra la via Emilia e il web" (Pendragon, 2004) e, insieme ad Antonella Beccaria, "Schegge contro la democrazia. 2 agosto 1980: le ragioni di una strage nei più recenti atti giudiziari" (Socialmente, 2010)