«Il giorno della cattura fummo fatti cadere in un tranello… Eravamo un ingombro, un ostacolo… eravamo testimoni da eliminare, eravamo l’unica protezione per le popolazioni avvilite e stanche e decisero di disfarsi di noi». Così il maggiore dei carabinieri Alfredo Vestuti, deportato: era il 7 ottobre del 1943, e tra i duemila e i duemilacinquecento carabinieri furono catturati e condotti nei Lager nazisti. Una data drammatica ma poco conosciuta, che si collega a quella invece ben più nota di 9 giorni dopo: il 16 ottobre, quando ci fu il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma. Sappiamo che anche Kappler, il Comandante delle SS, voleva allontanare i carabinieri dalla città prima di mettere in atto la deportazione degli ebrei.
I militari dell’Arma rappresentavano un problema: la maggior parte aveva boicottato gli ordini del Comando tedesco, quando questi colpivano la popolazione. Ecco dunque il collegamento tra le due date: l’ufficiale tedesco temeva che il rastrellamento degli ebrei avrebbe potuto innescare una rivolta. A colmare la lacuna di quel drammatico episodio di storia è il libro di Anna Maria Casavola: 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, per le Edizioni Studium. Il volume è frutto di una ricerca suggerita e guidata, come ci racconta l’autrice, dal professor Antonio Parisella, Presidente del Museo Storico della Liberazione di via Tasso, e supportata dal colonnello Giancarlo Barbonetti, Capo dell’Ufficio Storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.
Professoressa, sappiamo della sua lunga collaborazione con il Museo Storico della Liberazione, che senz’altro ha contribuito nella scelta del soggetto. Ma quali sono gli altri motivi che l’hanno spinta a scrivere questo libro?
«Le motivazioni sono molteplici e credo che il lettore attento non avrà difficoltà a scoprirle, a cominciare dalla dedica a mio padre: maresciallo maggiore dei Carabinieri. Certo, per un ricercatore la prima motivazione è aggiungere qualche tassello alle conoscenze che già si possiedono sull’argomento; poi, man mano che la ricerca procedeva, si sono unite altre sollecitazioni per il desiderio di dar voce e di far rivivere, nella grande Storia, le tante storie individuali. Quando si lavora con le carte d’archivio, dove si trova di tutto, dai documenti ufficiali alle lettere, alle pagine di diario di persone comuni, anonime, la prima verità che salta agli occhi è che esiste una storia dal basso e che, consapevolmente o no, ne siamo tutti protagonisti. Tutti disponiamo di uno spazio, sia pur minimo, di libertà, per effettuare delle scelte. Questa coscienza ha avuto un ruolo importante, in quel momento storico, nel determinare le scelte di molti italiani, quando si sentirono abbandonati a se stessi. Io qui parlo, in particolare, dei militari che furono le prime vittime dell’8 settembre, catturati dagli ex alleati su tutti i fronti. Venendo a conoscere le loro vicende di prigionieri, ho compreso meglio quella frase di Piero Calamandrei che dice: “Anche quando c’è una guerra, non c’è una guerra ma degli individui davanti alla guerra, insomma degli individui, sempre e soltanto degli individui”. Bene, per la grande maggioranza, essi, pur avendo la possibilità di sottrarsi alla prigionia, non vollero farlo e scelsero da soli, individualmente, senza riferimenti, superando le spinte gregarie e particolaristiche. Questa scoperta mi ha molto entusiasmata ed ho pensato che bisognava farla conoscere ai giovani, nelle scuole, perché avessero dei modelli di riferimento. I valori non si inventano né si cambiano, come le maniere a tavola, emergono dalla lezione della storia… Ma la storia bisogna conoscerla. Nel contesto della Seconda guerra mondiale, credo che nessun paese come l’Italia possa vantare un fenomeno così plebiscitario – parliamo di seicento, settecentomila uomini – di resistenza morale al nazismo come quello messo in atto dai militari italiani nei Lager. Essi hanno fatto veramente, direbbe Gandhi, politica non violenta, “lotta non armata ma non inerme”».
Dunque, possiamo dire che i carabinieri deportati il 7 ottobre 1943 rappresentano una pagina importante nella storia degli IMI…
«Senz’altro: nei Campi si sono comportati come gli altri militari, ma forse sono stati anche più perseguitati per la loro proverbiale fedeltà al re e per la parte che l’Arma aveva avuto nella caduta del regime. Tutta questa opposizione è stata poco approfondita e raccontata dagli storici, eppure è di grande importanza, perché fa emergere l’elemento spirituale all’interno delle decisioni politiche. Nel libro la scelta è presentata, salvo eccezioni, come una scelta morale, non ideologica. Il collegamento con una qualsivoglia ideologia, quando c’è, è con la stagione eroica del nostro Risorgimento».
Abbiamo detto che i carabinieri fecero sempre muro contro le violenze naziste verso la popolazione. Per questo furono portati via prima del raid contro gli ebrei?
«Sì, ho scoperto una bella pagina di storia dell’Arma a Roma in quel periodo: i carabinieri avevano dato filo da torcere ai tedeschi, che li temevano e li giudicavano inaffidabili per l’esecuzione dei loro ordini. Infatti, mentre tutto l’esercito italiano si era disciolto con l’armistizio, essi, in forza di convenzioni internazionali, erano dovuti restare al loro posto, passando alla dipendenza del Comando tedesco, ma avevano subito cominciato a sabotarne gli ordini, quando questi erano lesivi della popolazione. Indubbiamente, però, la loro posizione non era facile, perciò si era verificato in forma sempre più massiccia il fenomeno dell’abbandono delle caserme e dello sbandamento. Questo offrirà al Maresciallo Graziani, Ministro della Rsi, il pretesto per ordinarne il disarmo e, successivamente, la deportazione. Eliminati i carabinieri a Roma, i nazisti avranno via libera per arrestare gli ebrei. Ricordiamo che nella Carta di Verona, fondativa della Rsi, all’articolo 7 l’ebreo è parificato al nemico».
Nelle sue ricerche di archivio, ha trovato qualche episodio particolarmente significativo di cui ci vuole far cenno?
«Gli episodi tragici di cui sono venuta a conoscenza attraverso la mia ricerca sono stati tanti, come ad esempio quelli relativi alle stragi di militari italiani nell’ultimo periodo precedente la liberazione: la rabbia dei tedeschi per la sconfitta si riversò tutta sull’ex alleato, considerato responsabile di quanto era accaduto alla Germania. Analoga la convinzione di Hitler, che la espresse nel suo testamento, dove si rimprovera come il suo più grave errore l’amicizia per l’Italia e Mussolini. Davvero inimmaginabile il tributo di sofferenza che il nostro esercito ha pagato nell’ultima guerra, di cui si sa poco e nulla. Un episodio, in ogni modo, mi è rimasto particolarmente impresso: quello di un carabiniere detenuto a Dora Mittelbau, sottocampo di Buchenwald, perché, successivamente, ho avuto l’occasione di recarmi in Germania e di visitare proprio quel Campo. Lì, in gallerie scavate nelle viscere della montagna dello Harz, si costruivano i missili V1 e V2 – si trattava dell’arsenale di Von Braun, il futuro scienziato spaziale poi ingaggiato dagli americani – e i prigionieri non vedevano mai la luce del sole. Lavoravano e dormivano nel Campo, e, ogni giorno, li accompagnava l’orrenda scena degli impiccati appesi alle gru. Lì ci sono stati 1.500 militari italiani e la mortalità è stata altissima. Quel carabiniere superstite, al suo rimpatrio, non fu creduto, l’ufficiale che raccolse la sua dichiarazione annotò sul foglio che non aveva mai sentito niente di simile».
Lei è un’insegnante, ha quindi una funzione sociale molto importante. Ritiene che raccontare ai giovani certi momenti del passato possa essere un monito per il futuro?
«Io credo all’utilità sociale della storia, ma so anche che spesso è una maestra inascoltata perché non la si conosce, non la si ama. Bisognerebbe amarla, andare oltre il nozionismo freddo e vedervi agire le persone in carne ed ossa, con i loro sentimenti, le loro passioni, le loro fragilità, i loro ideali e non. La storia, per essere educativa, deve essere letta in tutte le sue pagine, quelle che ci piacciono e quelle non gradite. Lo storico degno di questo nome deve lasciar da parte le ideologie e far parlare i documenti, i fatti, senza omissioni o manipolazioni, solo così la storia può essere oggetto di riflessione, altrimenti degrada a retorica, a propaganda politica o ad agiografia. “Non vi è storia possibile”, diceva lo storico francese Pierre Vidal-Naquet, che io considero un maestro, “là dove uno Stato, una Chiesa, una comunità, per quanto rispettabili, impongono un’ortodossia”. Il mio libro è pieno di documenti, perché al centro del lavoro dello storico ci deve essere la ricerca della verità, o almeno delle verità possibili. Nel libro, però, io ho messo anche la mia passione per la giustizia e per la pace.
Io spero che nelle giovani generazioni si sviluppi un vero rifiuto della guerra: i bellicismi, i nazionalismi, i razzismi sono stati responsabili delle due guerre mondiali e, purtroppo, continuano ad avvelenare gli animi degli uomini. Sono molto orgogliosa dell’articolo 11 della nostra Costituzione, vorrei che fosse ripreso anche da quella degli Stati Uniti d’Europa. Vorrei che si capisse il salto di qualità che ha fatto il nostro Paese, trasformando il suo esercito in strumento di pace, al servizio di organismi internazionali, e mai più per opprimere la libertà di altri popoli o per risolvere le controversie internazionali. Questa è stata anche la consegna che si sono dati gli internati italiani nei Campi: di battersi per la pace, perché mai più reticolati fossero alzati nel mondo».
Dopo l’uscita del suo libro, in molti hanno ricordato e raccontato: ne verrà fuori altro materiale per un’ulteriore riflessione?
«Sì, mi auguro di raccogliere ancora altro materiale per integrare la mia ricostruzione, ho già rintracciato qualche testimone, ricevuto telefonate e lettere. Mi piacerebbe, attraverso la Rivista Il Carabiniere, invitare gli internati superstiti, oppure i loro familiari, nel caso conservino qualche prezioso diario, a mettersi in contatto con me. Ogni autore pensa con piacere alla possibilità di un seguito del suo lavoro. Io lo spero per me, ma soprattutto per la divulgazione di questa memoria».
Claudia Colombera è capo redattore della rivista "Il Carabiniere".