La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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Ciò che la politica nell’Europa dei nostri giorni chiama crisi é invece un assalto a mano armata dei poteri forti contro deboli senza difesa. Non sempre polizie e manganelli: spargere paura è il modo efficace per disperdere la protesta. “Se cade il mio governo sarà il caos”: Berlusconi ripete gli slogan di Pinochet, Milosevic, Mobutu, Gheddafi, dittatori dell’inganno e della repressione. Ma la resistenza passiva dei ragazzi è la novità che può umiliare la prepotenza

Quando la gioventù schiacciata va in piazza contro la violenza dello Stato

27-06-2011

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Gli inglesi vogliono costringerci a portare la lotta sui mitra, perché loro dispongono d’armi e noi non ne disponiamo. La sola possibilità di sconfiggerli che abbiamo è portare la lotta sul campo della non violenza, in cui noi disponiamo di armi e loro non ne hanno”.

 

Sarebbe un atto criminale predicare la non violenza ad un topo che è sul punto di essere divorato da un gatto. La non violenza è una strategia valida solo per i forti, i deboli devono rassegnarsi ad esercitare la resistenza passiva o la violenza. Ma gli indiani sono 300 milioni. Perché dovremmo avere paura di 150.000 inglesi? Proprio perché siamo quelli più forti, possiamo ricorrere alla non violenza”.

Mahatma Gandhi

 

Al di la di opzioni propagandistiche che prescindono spesso dall’analisi delle condizioni reali, del tipo “senza se e senza ma”, e cioè a prescindere, si deve osservare che – come ogni opzione politica – l’opzione non violenta è discutibile. Naturalmente, osservando l’attuale moltiplicarsi delle proteste in Europa è d’obbligo concludere che l’opzione pacifista è stata l’opzione indiscussa del movimento, dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo all’Inghilterra, dal Belgio all’Italia…

La maggiore virtù della opzione non violenta è che toglie prestigio alla repressione e concede una forte autorità morale al movimento. Il suo inconveniente è che risulta difficile determinare i confini tra l’antagonismo costitutivo della politica e la violenza. Ad esempio, per alcuni è violento che si occupino le piazze pubbliche o si metta in discussione la legittimità del parlamento e delle autorità di governo. Altri consideriamo violento che si votino leggi contrarie all’interesse generale per rispondere pedissequamente al diktat dei poteri economici e finanziari, che si licenzino migliaia di persone, che ci siano milioni di disoccupati ecc. Ma, al di la delle opinioni personali, bisogna riconoscere che se in tutti questi casi, dalla Puerta del Sol a Piazza Sintagma, non c’è alcuna traccia di violenza fisica tradotta in colpi o lesioni, indubbiamente si verifica una aggressione estremamente reale, contro le istituzioni o contro la maggioranza dei cittadini. Nulla comunque, se confrontate alle espressioni ascoltate a Pontida, dal “capo”o dai suoi travestiti ministri vociferanti.

Lo Stato non sceglie né può scegliere la non violenza. Non può farlo mai perché, per esistere, ha bisogno di avere permanentemente a disposizione i gruppi di “uomini armati” che costituiscono i suoi eserciti e polizie. Perché lo Stato è Stato nella stessa misura in cui dispone della forza violenta più potente su di un territorio.

La famosa caratterizzazione dello Stato fatta da Max Weber, “monopolio della violenza legittima”, è in un certo modo circolare: il monopolio della violenza è legittimo solo quando la propria violenza, in concorrenza con altre, si è impossessata di questo monopolio. Detto diversamente: non è la legittimità a concedere un monopolio della violenza. Anzi, al contrario, è il monopolio della violenza a sostentare la legittimità.
Per qualsiasi movimento che intende mettere in discussione l’ordine esistente e le sue istituzioni, il problema della violenza equivale a decidere sul rispetto del monopolio statale della violenza. Evidentemente, questo monopolio deve essere messo in discussione se si cerca un cambiamento politico e sociale radicale, ma esistono diverse forme di farlo.

La forma più evidente è quella di violare il monopolio e di praticare la violenza, come hanno fatto le organizzazioni che lo Stato denomina “terroriste”, che cioè hanno violato e violano il monopolio statale del terrore e della intimidazione violenta delle popolazioni. Il problema di questa posizione è che, salvo costruire progressivamente una potenza di fuoco che possa superare quella del proprio Stato mantenendo nel contempo un forte vincolo con i movimenti sociali e le organizzazioni politiche (com’è avvenuto nelle rivoluzione effettivamente realizzate, ad esempio a Cuba o nel Nicaragua, qualunque sia il giudizio a posteriori), l’organizzazione che sfida il monopolio statale della violenza corre il rischio di legittimare lo Stato con ognuna delle sue azioni come dimostra, ad esempio, la storia degli “anni di piombo” italiani. E a questo risultato non si può scappare, proprio per la logica implacabile del regime di legittimazione dello Stato moderno.
Fin da Hobbes, lo Stato moderno fonda la sua legittimità sul fatto che mette la parola fine a una teorica situazione di guerra civile generalizzata. Nel mitico “prima”, ossia nello “stato naturale” che precede la fondazione dello Stato, la mancanza di limiti dei desideri umani metteva di fronte gli individui impegnandoli in una guerra “di tutti contro tutti”. La violenza circolava liberamente e, pur se alcuni potevano disporre di un maggiore potere violento di altri dopo avere concluso alleanze contro un nemico comune o per altre circostanze, nessuno poteva spontaneamente impossessarsi del monopolio della forza. Il momento fondante dello Stato, secondo Thomas Hobbes, è quello in cui i diversi individui stringono un patto tra di loro per consegnare tutto il loro potere (e in particolare tutta la loro capacità di esercitare la violenza) a uno solo, a una persona individuale o collettiva che diventa il sovrano. Il monopolio della violenza così acquistata dal sovrano è garanzia di pace e sicurezza per tutti quelli che diventano – mediante il patto – i suoi sudditi. Secondo Hobbes, questo patto deriva “dal mutuo rapporto tra protezione e ubbidienza” (“Leviathan”).

In astratto, non c’è una grande differenza formale tra questo rapporto ubbidienza/protezione e il vecchio patto mafioso tramite il quale la mafia costringe la popolazione ad ubbidirla e a pagarle tributi in cambio di “protezione”. In concreto, ciò che differenzia lo Stato della mafia è il monopolio della violenza al quale la mafia non può accedere e che lo Stato mantiene formalmente. Grazie al carattere mitico e giustificatore del “patto”, liberamente sottoscritto dagli individui, afferma Hobbes, lo Stato è non soltanto un potere invincibile ma, soprattutto, è un potere legittimo.

Questa invenzione giuridica sull’origine sempre giuridico – ossia contrattuale – del proprio diritto, è il solo modo di cui dispone Hobbes per impedire che il diritto si riduca alla mera espressione di un rapporto di forza. Sappiamo bene che un’altra linea della modernità filosofica, che spazia da Machiavelli a Marx passando per Spinosa, accetta invece come fondamenta della vita politica e del diritto, il rapporto di forza tra la moltitudine e il sovrano, evitando il paradosso di un origine giuridico del diritto e rifiutando come pura mistificazione la problematica della legalità. Ma il fatto è che Hobbes ha vinto. Almeno per ora.
Secondo la concezione giuridica dominante, nelle specifiche condizioni di scambio tra ubbidienza e protezione – in regime di monopolio – che caratterizzano lo Stato moderno, ogni violenza privata equivale ad una rimessa in scena dello stato di natura iniziale e giustifica la paura legata al ritorno della dinamica che scatena la guerra civile e il caos. Detto diversamente, lo Stato sovrano non solo si legittima grazie al patto, ma anche grazie alla paura costante del ritorno, con qualsiasi atto di violenza non statale, della guerra civile e del caos generalizzato.

E’ essenziale per lo Stato coltivare questa paura, perché mai si dimentichino sia il motivo del patto che dell’ubbidienza. Infatti, lo Stato contemporaneo si basa, sia quando adotta forme di eccezione (dittature, sospensione dei diritti ecc.), sia quando adotta le sue figure “normali”, su un meccanismo di retro-alimentazione in base al quale ogni atto – reale o immaginario – che metta in discussione il suo monopolio della violenza, finisce per rinforzarlo. Il paradosso della disubbidienza violenta è proprio questo: finisce per rinforzare l’ubbidienza.
Nelle condizioni esistenti, infatti, ogni violenza politica non statale si riduce automaticamente a banditismo e delinquenza e diventa, qualunque sia la sua motivazione, un oggetto di paura per la popolazione e una fonte di legittimazione del sovrano. Tuttavia, il sovrano è costretto a fare i conti con l’indefinizione dei limiti della violenza, perché lo stesso atto, qualsiasi tipo di atto, può o meno considerarsi violento in funzione delle circostanze o degli attori. Perciò, per lo Stato è vitale non soltanto disporre del monopolio della violenza ma, anche, del diritto esclusivo a definire ciò che è violento.

Diciamolo con San Paolo: “Senza legge non c’è peccato”. Ovvero, per il necessario scontro tra le passioni e interessi umani, ogni esistenza sociale implica necessariamente un determinato grado di violenza. Proprio perciò, lo Stato non può avere la pretesa di mettere fine ad ogni violenza, a cominciare dalla sua. Ciò che lo Stato può fare è identificare come violenti alcuni atti, ignorando la violenza di altri e tollerandoli. Per dirla con Carl Schmitt, “sovrano è chi designa il nemico”(“Il concetto del “Politico”). Jacques Derida commenta: “Lo spazio politico non esisterebbe senza la figura del nemico e senza la possibilità determinata di una vera guerra. La scomparsa del nemico segnerebbe l’inizio della depolitizzazione, la fine del politico. Il nemico permette di identificare la violenza, il riconoscimento del pericoli e quindi, la possibilità della difesa, della protezione e della tranquillità. Il riconoscimento dell’altro, dello straniero, del nemico, permette la costruzione dell’identità politica” (”Opere scelte”). Oggi potremmo dire che “sovrano è chi designa il terrorista” o, più in generale, il “violento”.
Nel contesto odierno, il richiamo alla democrazia e alla non violenza rappresenta una delle grandi conquiste del movimento. E’ grazie alla sua opzione “pacifista” che si è potuto osservare, spesso in modo estremamente chiaro, il funzionamento del meccanismo di retro-alimentazione appena descritto. Pur se i media cercano comunque di ignorarlo, il rifiuto rigoroso di ogni violenza fisica da parte del movimento ha costretto in più occasioni lo Stato a mettere in scena artificiosamente la violenza esercitata dai suoi corpi repressivi.

Infatti, ciò che maggiormente sorprende nel movimento degli “Indignati” è l’immensa tranquillità della loro indignazione e la loro scarsa vulnerabilità alle costanti provocazioni della polizia infiltrata o uniformata. Questo atteggiamento ha avuto l’effetto di un reagente chimico, dividendo chiaramente la violenza dalla convivenza pacifica e dalla autentica vita politica, e mettendo tutta la violenza sul conto dello Stato. In questo modo, lo Stato non si dimostra violento soltanto per la sua politica sociale ed economica apertamente favorevole al capitale finanziario e apertamente contraria agli interessi vitali della sua popolazione ma, anche, perché i suoi corpi repressivi, incapaci di realizzare una provocazione efficace, sono costretti alla drammatizzazione impotente – sempre con la complicità dei media – di scene di guerra civile inventate di sana pianta (basterà consultare i numerosi video su Atene, Madrid o Barcellona nella rete).
La messa sulla difensiva del sistema di retro-alimentazione della violenza sovrana trasformata in violenza gratuita, ovvero l’obbligo che la potenza del movimento ha imposto a questo sistema di retro-alimentazione costringendolo a funzionare in circuito chiuso, rappresenta un successo di dimensioni colossali che conferma la correttezza della opzione non violenta. Infatti, nelle attuali circostanze, ormai il regime riesce a funzionare solo in modo delirante. Poiché è difficile non definire come delirio, ad esempio, che considerino violenza la libera discussione nelle strade e nelle piazze, la resistenza passiva a una carica della polizia, l’opposizione al licenziamento dal proprio posto di lavoro, il ricupero della vita civile, l’esistenza politica di tutto ciò di cui lo Stato capitalista priva i suoi sudditi attraverso i suoi sistemi hobbesiani di rappresentanza/protezione.

Finora lo Stato sovrano aveva tra le sue facoltà il monopolio della identificazione della violenza. Oggi la popolazione gli sta togliendo questo privilegio senza pretendere minimamente di disputargli il monopolio della violenza fisica: se tutta la violenza è dalla sua parte, da quella della popolazione civile c’è invece la potenza costituente dell’indignazione.

Rodrigo Rivas, economista cileno, è stato parlamentare ai tempi di Allende. Esule dal 1974, ha diretto il Cespi, di Mani Tese, direttore di Radio Popolare, oggi lavora in Umbria per le politiche sociali di Città di Castello.

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