Riccardo Muti ha compiuto 70 anni, non credo festeggerà oltre al brindisi di famiglia. Lo accompagna una timidezza a volte confusa per alterigia: parla poco, preferisce ascoltare. Un giorno mi ha raccontato come la musica è entrata nella sua vita scegliendo le parole col pudore di chi non sopporta i riflettori appena scende dal podio.
Era un bambino solitario, ma usciva del guscio nel quale nascondeva lunghi silenzi appena la seduzione della musica trasformava la malinconia in un’esistenza felice. Senza la musica, confessa oggi, non si può assorbire la vita. Ma quale tipo di vita lasciavano immaginare le prime note raccolte nel sole di Puglia? Si apre il sipario di una biografia insolita, prologo al melodramma. “Un padre che fa il medico e canta con bella voce da tenore. Canta lo Stabat Mater di Rossini. Però non è il segno che decide. La bellezza lacerante della musica mi ha commosso in un rito collettivo: le processioni. L’odore dell’incenso e dei fiori che inondavano la chiesa il Venerdì Santo. Un po’ come in Sicilia si è avvolti dal profumo di zagare. Così è cominciato il senso drammatico che mi accompagna nell’arte”. Le tensioni che la gente avverte nelle sue esecuzioni nascono da visioni lontane. “Andavo in processione col nonno. Si chiamava Nicola, maestro elementare. Toscaniniano nell’aspetto come lo erano certi personaggi della citta’ di Salvemini: abiti di taglio severo, occhiali a pince nez, grande autorità. Andavamo in processione con la gente che cantava dietro le statue. Avevo sei anni, mi teneva per mano. Un bambino trascinato al buio per le strade di Molfetta…”. Mi attraeva la pietà immersa nelle ombre. Scoprivo che la città cambiava; diventava palcoscenico. La processione usciva a mezzanotte dalla chiesa di Santo Stefano. Prima le statue in fila da appoggiare a lato della porta. Ultimo il Cristo morto. Lo accompagnavano quattro enormi candelabri d’argento. Cominciavano a spuntare i piedi trafitti, e quando i piedi avanzavano verso di me, ecco, spegnersi le luci. Spariva il mare, sparivano le barche. Era la musica a guidarci. Non lo dimenticherò mai: il “Dies Irae” richiama visioni che accomunano migliaia di persone in un senso di mistero. La processione attraversava lentamente ogni strada. Quando passava davanti a casa, il nonno apriva la mano: ‘adesso, a letto’. Scappavo a dormire”. E la processione? “Continuava fino al mezzogiorno del giornodopo. Il ripassare delle statue sotto le finestre era annunciato da un piccolo concerto di musici che precedevano la folla: ottavino, flauto piccolo, tamburo, grancassa, la tromba. Ci svegliavano da lontano. Mi sono fatto scrivere la melodia che mai ho dimenticato e che certamente viene dall’Oriente. L’ottavino piange in una sinfonia difficile da cantare. Poi tamburo e grancassa. Spuntava la tromba sotto i passi delle congregazioni degli incappucciati. Portavano la prima croce di legno con inchiodata la faccia del Cristo. A tratti la banda si scostava dalle marce per intonare lo Stabat Mater. Così comincia l’amore per il melodramma”. Nello “Stabat Mater” respirava aria di casa… “L’ho impatrato presto e l’ ho inciso diverse volte alla Scala e a Salisburgo. Penso di essere nato con questa musica e con le marce funebri”. Sorride scaramantico. “Il nonno declamava i nomi di ogni marcia con la solennità di un rito”. Qualcuno ha scritto che da ragazzo la musica non le piaceva? “Al contrario, ne ero immerso. Avevo sei mesi quando mi hanno portato in carrozza al Petruzzelli di Bari. Davano l’ Aida. L’ho ascoltata dall’ ultima fila, in braccio al cocchiere pronto a scappare se avessi disturbato. Raccontano che non ho pianto e non mi sono addormentato. Ma in casa era un’ altra cosa. Mio padre riteneva che la conoscenza della musica fosse obbligatoria per la definire l’armonia della personalità. Chitarra, fisarmonica, piano, violino. Cinque fratelli, cinque musicisti in erba. Nella festa di San Nicola ho trovato fra i regali il primo violino: ci siamo, devo studiare. Una signora di Molfetta insegnava solfeggio. Per mesi non capivo. Noiosissimo. Finché all’improvviso il meccanismo della lettura della musica mi è sembrato chiaro. Anche col violino faticavo. Mi mettevano a studiare davanti alla finestra e guardavo i compagni che giocavano a pallone. Eppure non li invidiavo dalla costrizione delle note che ossessionavano le mie abitudini. Debuttai, diciamo così, in un concertino di Vivaldi al Seminario Pontificio. Papà curava i preti e non voleva niente e loro coinvolgevano i figli nello spettacolo di fine anno. Sedeva in prima fila, applaudiva. Mia madre no: rigorosa e severa. Trovava sconveniente battere le mani ai suoi ragazzi”. Madre pugliese? “No, di Napoli, una vera napoletana. Difficile raccontarla. Capelli nerissimi, viso da macchiaiolo mediterraneo. Si chiamava Gilda. La nonna materna arrivava da Grenoble: marchesa Gavaudan. Non ne conosco la storia. Ricordo le villeggiature nella sua casa in via Cavallerizza a Chiaia, tovaglioli e posate con lo stemma. A Molfetta mia madre stava bene, ma i figli dovevano nascere a Napoli. Non importa la guerra o il viaggio, dodici ore di treno. Perché? le ho chiesto dopo. “Non si sa mai nella vita. Se siete costretti a girare il mondo e la gente vi chiede dove siete nati, se dite Napoli, vi rispettano. Se dite altri nomi, dovete spiegare per ore e gli altri continueranno a non capire”. Non poteva immaginare che avrei girato il mondo. Forse il motivo era un altro. Spuntava nei suoi discorsi. Era orgogliosa di appartenere a una delle capitali dell’Europa di un secolo che amava: il ‘700. La musica quando è cominciata, davvero?
“Da principio l’ho divisa col liceo. Le famiglie di allora volevano che i figli prendessero un “pezzo di carta”, titolo che permetesse di affrontare la vita. Anche oggi penso sia così. Abitudini erano spartane. A letto alle dieci di sera e, prima della scuola, al mattino i letti dovevamo rifarceli da soli. Non c’era la Tv, qualche volta la radio o mio padre che cantava e noi ad accompagnarlo. La stessa città, con le sue abitudini severe, invitava alla riflessione. Di fronte ai giardini dove andavamo a giocare l’epigrave incisa sotto un grande un orologio ci ammoniva con parole gravi e lontane dalla svagatezza del pallone: “mortales vos esse docet quae labitur hora”, l’ora che scorre vi ricorda che dovete morire. Anche i nomi delle strade riportavano l’eternità: abitavo in via Crocefisso, angolo piazza Paradiso. Segni sempre austeri. Alla musica mi sono avvicinato con la volontà di chi non rinuncia alla vocazione malgrado il peso degli studi. Uscivo dal liceo, prendevo la corriera per Bari: fino a sera in conservatorio. Ritorno pieno di sonno. Ho avuto fortuna perché lì ho incontrato Nino Rota, compositore amato da Fellini, personaggio fondamentale nella mia vita: mi ha fatto capire la bellezza dei suoni. Era impastato nella musica. Quando parlavamo all’improvviso abbandonavo i discorsi; gli occhi si perdevano in orizzonti lontani. Allora desideravo che un pianoforte gli fosse aperto sotto le mani per ascoltare la melodia che lo stava attraversando. Ho superato gli esami da privatista con dieci e lode. “Ti abbiamo dato la lode non per come hai suonato ma per come puoi suonare”. Gli spiegavo che mi sarebbe piaciuto andare a Napoli. Non mi ha trattenuto. “È giusto, Napoli è importante”.
I fratelli vanno a Napoli per l’ università e la famiglia non si divide: il padre trova il coraggio di cambiare pazienti e rifarsi un nome nella grande città. Sempre assieme. Muti si iscrive a filosofia e frequenta il conservatorio. Continua fra i piu’ bravi. Un mattino Jacopo Napoli, che dirige la scuola, lo manda a chiamare. “Suoni il pianoforte come un direttore. Non ho nessuno che diriga il saggio di fine anno. Te la senti?”. Si emoziona ma in pochi minuti scioglie la paura. “Mi faceva impressione che con un gesto dall’ alto verso il basso partisse l’orchestra. È la mia strada, ripetevo”. Segue Napoli al conservatorio di Milano. Lo decide un consiglio di famiglia, attorno al tavolo,m occhi pensosi del padre; la madre vorrebbe ma un figlio tanto lontano le strappa il cuore. Deve andare? Alla fine deve. È la prima volta che viaggia solo. Milano lo raggela: la nebbia e i geroglifici di una parlata che fatica ad afferrare. “Era come soffocare, mancava la luce. La luce di Molfetta, luce africana. Muri bianchi, ulivi che si piegano sotto il sole. La luce di Napoli coi colori del golfo…”. Milano vuol dire pioggia, camere grige in pensioni per squattrinati. Dorme nella stanza di un tenore che fa vocalizzi e per concentrarsi nello studio del contrappunto, si rifugia su una panchina dei giardinetti di Porta Venezia. “Isolamento prezioso. Ha reso l’ orecchio più sensibile; compiti di composizione senza un pianoforte mi insegnano a calcolare gli accordi sull’ ‘udito interno’, non so se si possa dire così”. Padre e madre risalgono a Milano per i saggi di fine anno. Portano l’ olio di casa, partono appena si spengono le luci, ultimo treno per kil sud. Un giorno prova in una sala del conservatorio, quando tra il maestro e i musici appare una ragazza. Ha sbagliato porta. Muti la scaccia col gesto imperioso della bacchetta. Ma l’ ha guardata, e lei lo ha visto bene. Chi sara’ quel giovane scontroso? Una ragazza di Ravenna, studia canto, si chiama Cristina Mozzavillani. Qualche anno dopo si sposano. Intanto il maestro sgobba come un giapponese: ore e ore di studio, i primi concerti. Con un’ orchestra militare di Praga va in tourneée in piccole citta’ la più importante si chiama Carpi. “Quando arrivo a Bergamo mi pare d’ essere a New York”. Vince il premio Cantelli e lo chiamano al Maggio musicale fiorentino per accompagnare Richter, solista sublime. Non sa ce la farà, l’autocritica spietata tormenta i dubbi, invece arriva il successo. Il Maggio fiorentino sta cercando un direttore e Muti viene scelto dall’ orchestra con l’ aiuto di un articolo che Leonardo Pinzauti scrive sulla “Nazione”: perche’ non fidarsi della giovinezza? Ed é a Firenze che smette di essere una promessa e diventa quello che é. Si sposa, nascono i tre figli. Dal Sud ogni tanto arrivano il padre e la madre. Il padre in prima fila ad applaudire, la madre sempre in fondo, silenziosa. Dopo ogni concerto il dottor Muti avvicina il critico importante: “Mi dica, professore, come va questo ragazzo?”. Poi 10 anni alla Scala, i Berliner, Vienna il giro del mondo con i suoi con certi di pace da Beirut a Sarajevo. L’adorazione degli spettatori lo imbarazza. Resta timido, appartato. Con Guido Vergani una sera lo seguo a Francoforte: gli applausi per il Requiem fanno tremare l’auditorio. Una bella, signora figlia, del presidente tedesco, è perduta nei suoi occhi: ha organizzato una cena di gala. Ma il maestro si imbarazza e scivola via. Bussa alle nostre camere col maglione nero: “E se andassimo a mangiare una pizza?”.