A trent’anni di distanza continua il tentativo di depistaggio della memoria, nonostante oggi sia possibile leggere pezzi di storia recente con maggiore lucidità, sia per la quantità di nuovi dati di conoscenza di cui si dispone, sia per il decorso del tempo che consente di migliorare la prospettiva della analisi. L’addensarsi degli avvenimenti della primavera del 1980 (disastro di Ustica, uccisione del giudice Amato, strage di Bologna) oggi potrebbe essere dipanato ed analizzato con maggiore freddezza, solo se si volesse. Ma interessi consolidatisi nel tempo sembrano riproporne ancora una rappresentazione fuorviante.
La sovraesposizione mediatica di una problematica rispetto a un’altra secondo un ordine di centralità inverso rispetto ai problemi di funzionalità del sistema democratico – la mancanza di trasparenza rispetto all’ennesimo tentativo di realizzare un progetto eversivo mediante una strage con la eliminazione del giudice Amato che a questo progetto si opponeva – induce a ritenere che gli ignoti mandanti di allora siano ancora attivi e fortemente preoccupati che questo bubbone della storia della democrazia possa essere ancora scoperchiato.
A ondate arrivano i tentativi di minimizzare l’isolamento di quel valoroso pubblico ministero romano e di screditare l’impianto del processo per la strage del 2 agosto conclusosi con le condanne definitive di Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Ultimo arrivato il giudice Priore, noto per avere istruito il processo di Ustica, impegnatosi in un libro intervista con il giornalista Giovanni Fasanella. L’operazione non stupisce perché già in passato spesso il processo di Ustica era stato utilizzato mediaticamente per oscurare ogni analisi seria sullo stragismo. Certamente senza alcun coinvolgimento del giudice Priore e di tutti coloro che hanno seguito con attenzione la tragedia di Ustica. Ma, tenuto conto delle battaglie per la verità di Priore sul disastro di Ustica, è comprensibile che qualche onesto commentatore possa essere indotto ad accreditare come un fatto storico quelle che sono, invece, solo legittime valutazioni su indagini delle quali non si era mai interessato in passato.
Nonostante il giudice Amato nel giugno 1980 avesse reiteratamente richiamato l’attenzione del CSM verso le attività eversive di soggetti del sottobosco politico italiano che tentavano di portare il paese alla guerra civile ed i dati storici anche di recenti processi confermino la circostanza, le operazioni di depistaggio sono state sempre realizzate tentando di dirottare l’attenzione degli inquirenti verso soggetti che operavano esclusivamente all’estero, distogliendola dall’humus che esse avevano in ambienti nazionali, aggregati dalla P2.
Il libro-intervista di Priore – ignorando l’immenso materiale raccolto nel processo in corso dinanzi alla Corte di Assise Brescia per la strage di piazza della Loggia del 1974 – afferma che le stragi hanno una “matrice ancora incerta”. E su Bologna: “le ricerche storiche più recenti vanno in tutt’altra direzione. Sta emergendo una ricostruzione secondo la quale l’attentato alla stazione di Bologna sarebbe stato una reazione all’arresto di tre esponenti di Autonomia Operaia”. Di grazia quali ricerche storiche?
Nel processo di Brescia sono contenute le chiavi di lettura per comprendere tutta la strategia stragista, vi è qualcosa di interessante anche su Bologna, ma gli “storici” lo snobbano: meglio le boutade, i teoremi, i postulati, le divagazioni.
Il giudice Priore si abbandona anche ad una difesa a tutto campo della magistratura romana: “I miei colleghi della Procura di Roma hanno ricostruito e colpito quasi con precisione millimetrica le reti eversive neofasciste”, in contrapposizione a severi giudizi nei confronti della procura bolognese: “Altre procure” dice “prima elaboravano un teorema, anzi a parer mio dei veri e propri postulati, da cui poi facevano discendere le interpretazioni dei fatti, le connessioni, la realtà tutta”, “teorizzazioni che hanno impedito che si arrivasse alla verità”.
È la tesi di Fioravanti. L’ipotesi cioè di uno spontaneismo armato degli anni ’80 come variabile indipendente che agiva al di fuori di un progetto politico e non poteva avere alcun interesse a farsi strumento per la realizzazione di una strage indiscriminata, posizione a suo tempo fortemente sostenuta dalla magistratura romana, che è stata smentita nel 1993 da uno degli stessi PP.MM. di Roma, il dottor Giovanni Salvi [1]:
Il materiale emerso dai dibattimenti e lo sviluppo delle successive investigazioni hanno evidenziato una rete di relazioni tra soggetti appartenenti a gruppi diversi (e apparentemente tra di loro in netto contrasto) ben più ampia di quanto si sarebbe potuto ipotizzare. In certo senso, la prospettazione di una unica struttura organizzativa dell’eversione di destra romana… È infine risultata assai più vicina alla realtà di quanto ci si sarebbe aspettati… La grande permeabilità interna dell’ambiente della destra eversiva ha condotto a rimarcare la rilevanza della presenza di alcuni soggetti, come possibile filo conduttore di progetti politici nati ben prima delle esperienze della nuova destra… Che inducevano a rileggere le esperienze più diverse secondo filoni interpretativi unitari… l’ipotesi formulata dagli inquirenti bolognesi sin dal 1980 si è rivelata nella sostanza esatta.
Un’analoga revisione è stata recentemente esposta nel corso di un convegno tenutosi a Barletta il 22.11.2008 anche dal Procuratore di Padova Vittorio Borraccetti che aveva condotto le parallele indagini padovane:
Per un lungo periodo l’unico ad insistere perché il terrorismo nero venisse preso sul serio era stato il sostituto procuratore romano Mario Amato. Lasciato praticamente da solo, aveva protestato spesso e inutilmente per la mancanza di un adeguato impegno di polizia e magistratura su questo fronte, sino a inoltrare le sue rimostranze al Consiglio Superiore della Magistratura. Nel mese di marzo 1980 e poi ancora dieci giorni prima di essere ucciso – e 40 giorni prima della strage di Bologna – davanti alla prima commissione referente del CSM Mario Amato aveva pronunciato il suo atto d’accusa: «Siamo in pratica alle soglie di una guerra civile». E per questo allarme pagò con la vita per mano della banda di Fioravanti dopo che lo stesso CSM aveva già subito una grave intimidazione con un grave attentato esplosivo davanti alla sua sede.
Non è proprio un bel modo per Priore, a trent’anni dalla uccisione di Mario Amato proprio per mano degli uomini della banda di Valerio Fioravanti, di onorare la memoria del suo collega rinnegando apoditticamente le sue tesi, senza essersi fatto carico di informarsi neanche sulle tante altre circostanze che sono ancora emerse nel corso del tempo. Ad esempio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che nel suo recente libro “Don Vito” – scritto insieme al giornalista Francesco Licata – ha riferito di avere saputo dal padre Vito che l’omicidio avvenuto il 6 gennaio 1980 del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella era stato appaltato dalla mafia “alla manovalanza romana, un po’ delinquenti un po’ terroristi” per “uno scambio di favori”.
La stessa giustificazione che ne aveva dato Cristiano Fioravanti, il quale aveva dichiarato che ad uccidere Mattarella era stato il fratello Valerio per un accordo intervenuto con un funzionario regionale (persona altrimenti identificabile) collegato con ambienti massonici. Davanti ai giudici palermitani aveva poi ritrattato, ma successivamente davanti al G.I. di Bologna aveva ancora riconfermato la circostanza. Valerio Fioravanti, che era stato riconosciuto dalla moglie di Mattarella, fu assolto sulla base di una valutazione di Tommaso Buscetta secondo la quale la mafia non avrebbe mai appaltato un delitto di quel genere ad un soggetto esterno. Tesi che le dichiarazioni di Ciancimino ribaltano completamente, con effetti quantomeno sul piano storico. E con esso offrono una chiave di lettura completamente aggiornata anche della strage di Bologna, in cui c’è dentro il collegamento tra neofascisti e mafia – desumibile anche da altri elementi – perfettamente inserito e coerente con le relazioni tenute da Licio Gelli attraverso la loggia massonica P2 e tutta la fitta rete di organizzazioni paramassoniche ad essa collegate.
Se i giudici di Bologna avessero ingiustamente condannato degli innocenti, vi sarebbero i rimedi per correggerle mediante l’istituto della revisione. Invece i condannati in questione la revisione non la chiedono. Sono altri che si danno da fare per cancellare quel pezzo di verità, sia pure incompleto perché limitato a tre giovanissimi, che comunque costituisce il primo passo per arrivare alla verità sui mandanti. Quando vi fosse la volontà di cercarli.
A distanza di trent’anni è forse proprio un problema di sola volontà, perché molti fatti nuovi vanno emergendo e fatti già in passato accertati sono diventati comprensibili. Nessuno mette in discussione la rivedibilità di qualsiasi assunto, metodo storico ineludibile. Mi limito ad evidenziare che accreditare ricostruzioni prima ancora di disporre anche solo di uno straccio di inizio di prova e non farsi carico di confrontare tale ipotesi con i dati di conoscenza già disponibili è una operazione che tradisce proprio le radici del metodo storico.
Claudio Nunziata - Magistrato in pensione. In qualità di sostituto presso la Procura di Bologna, ha svolto le prime indagini nei tre processi per le stragi che, tra il 1974 ed il 1984, hanno interessato la città di Bologna (treno Italicus, stazione di Bologna, rapido 904). Ha scritto numerosi saggi ed analisi in materia di criminalità economica e storia dell'eversione.