Mi è sempre piaciuto Saviano, con quella faccia un po’ così, sguardo torvo, barba ispida e una fronte immacolata. E grazie a Gomorra sono riuscita a entrare nel mondo allucinante dell’interland napoletano, nella periferia della mia città e nella periferia del fenomeno, nelle sue ultime propaggini di guaglioni fuori di testa e di intossicati fin dentro l’anima.
Ho visto, come tanti, il suo special di mercoledì 11 novembre e, portata dalla sua voce, ho rivisto il litorale domizio della mia adolescenza, la pineta (davvero infinita), la spiaggia quieta e intonsa, e un mare placido dove figure più simili a contadini che a pescatori, trainavano, come fosse un aratro, il marchingegno con cui tiravano fuori dalla sabbia lupini e vongole. E all’interno ricordo gli olmi a cui si abbracciavano ancora, come gigantesche ragnatele, le viti di cui avevano cantato i poeti latini. La distruzione di quel territorio è stata ben descritta da Saviano che aveva armato la sua performance intorno alla tesi che scrivere si deve, che questo mestiere offre dei rischi perché disturba il potere, ma che lo scrittore (ma forse avrebbe dovuto dire, più genericamente, chi dà testimonianza) deve resistere e persistere.
Per fare questo ha usato alcuni dei molti esempi che il mondo ci ha offerto e ci offre. Uno di questi si riferiva allo scrittore cubano Reinaldo Arenas. Ancora una volta la voce di Saviano mi ha riportato ad altri tempi e mi sono andata a rileggere le tre interviste che avevo fatto ad Arenas, all’Avana, il 19 e il 21 aprile del 1978 e poi il 3 maggio del 79. Ho rivisto quel ragazzo riccioluto e la sua stanza in quello che era stato l’Hotel Monserrat e che all’epoca era diventato un falansterio surreale, decadente e chiassoso, dove trovava alloggio l’umanità più svariata. Arenas mi aveva raccontato della sua detenzione, nel 1975 a causa della denuncia sporta dai genitori di due minorenni, probabilmente due mascalzoncelli, con i quali si era intrattenuto sulla spiaggia dell’Avana del Este. Ne era uscito nel 1976, aveva trovato quell’alloggio precario nel centro della città e si era rimesso a scrivere. Non mi fece cenno del libro di cui parla Saviano, Prima che faccia notte, un libro che, infatti, ha scritto anni dopo, dopo essere scivolato nei giardini dell’ambasciata del Perù, ed essersi poi infilato in uno dei tanti motoscafi che da Miami arrivavano al porto del Mariel a raccogliere quanti volevano lasciare l’isola, nel 1981. Si sa, perché lo ha scritto lui, che gli Stati Uniti non gli piacevano per molte ragioni, d’altra parte lui stesso si definiva un irriverente ed era certamente uno spirito scomodo per tutti. Ma non è questo il punto a cui volevo arrivare; io volevo chiedermi e chiedere se è credibile che un libro sostanzioso come è la autobiografia di Arenas potesse essere stato scritto in carcere sulla carta igienica (un materiale che ha Cuba è sempre stato raro e più che centellinato), se è credibile che un transessuale, tanto per stare alla moda, sia riuscito a portar fuori quel manoscritto infilandoselo nel retto e se è credibile, infine, che un materiale così deperibile sia potuto arrivare a destinazione ancora leggibile. Forse Arenas lo ha scritto ma la sua era letteratura!
Alessandra Riccio ha insegnato letterature spagnole e ispanoamericane all’Università degli Studi di Napoli –L’Orientale. E’ autrice di saggi di critica letteraria su autori come Cortázar, Victoria Ocampo, Carpentier, Lezama Lima, María Zambrano. Ha tradotto numerosi autori fra i quali Ernesto Guevara, Senel Paz, Lisandro Otero.E' stata corrispondente a Cuba per l'Unità dal 1989 al 1992. Collabora a numerosi giornali e riviste italiani e stranieri e dirige insieme a Gianni Minà la rivista “Latinoamerica”. E’ tra le fondatrici della Società Italiana delle Letterate.