La trama di “Cose dell’altro mondo”, è centrata sul processo introspettivo e collettivo di una cittadina veneta (riconoscibile il centro di Bassano, provincia di Vicenza), all’accadere qualcosa di surreale: la scomparsa dei migranti, d’un colpo, in una notte di temporali: 90 mila dalla regione, un milione dall’Italia, recita il film. In realtà, le cifre sottovalutano il fenomeno di una migrazione consolidata da oltre 25 anni. Sono 95 mila i migranti solo nella provincia di Vicenza, di cui 25 mila minorenni che vanno a scuola. Cosa succederebbe se svanissero all’improvviso? Sarebbe il Veneto lo stesso Veneto? Saremmo “noi” gli stessi “noi”?
Al cinema col timore di riconoscere i nostri limiti
C’è aspettativa nel cinema “Roma” di Vicenza. Sala zeppa di adulti, i ragazzini amano le emozioni chiassose dei film d’azione. Gli adulti non sgranocchiano pop-corn, però scaricano la tensione parlottando. “Mah, vediamo. Abatantuono che fa il veneto!”; “Se è razzista verso di noi, lo si capirà subito”; “Cosa vuoi che sappiano dire in veneto, degli attori romani!”. Il pubblico è pronto ad essere ferito nell’amor proprio. Ci si abitua più facilmente a generalizzare rispetto ad essere “descritti” da un film presentato al Festival di Venezia e ritenuto di interesse generale da parte del Ministero dei Beni Culturali. “A speriamo ben”, sussurra la mia vicina, capelli laccati, mani intrecciate e pesantissimi orecchini d’oro, appena le luci si spengono. L’idea base di “Cose dell’altro mondo” riprende “A day without Mexicans” (“Un giorno senza messicani”), di Sergio Arau (2004), che descrive lo scenario satirico-catastrofico di una California abbandonata dai lavoratori messicani. Nel 1924 fu la volta di “The City Without Jews” (“La città senza ebrei”), di H.B. Breslauer, basato sul libro di Hugo Bettauer. Entrambe le opere sono una risposta allegorica al razzismo anti-chicanos e all’antisemitismo.
Nel film ambientato in Veneto, il telegiornale sentenzia che, con la scomparsa dei migranti “si è fermato tutto il Veneto”. Poco a poco, gli stereotipi razzisti dei quali in tanti si riempivano la bocca, si affievoliscono nella malinconia. I migranti non sono solo lavoratori (sottopagati), ma anche colleghi, compagni, amori. Geniali le scene che rendono indiretto tributo al lavoro delle collaboratrici familiari: scomparse anche loro, gli anziani non autosufficienti vagano per la piazza privi di cura e tenerezza. Così, la cittadina simbolicamente “si perde”, si frammenta, si lascia andare ad una inerzia controbilanciata da compensazioni dei servizi in stile burocratico-militare che ricordano lo stile di vita dei terremotati. Molto toccante la scena delle “badanti” sostituite dalle guardie carcerarie che servono pasti in lunghe file. L’importanza fondamentale delle collaboratrici familiari permea tutti i ritratti familiari del film. Peccato che non si sia approfondito ulteriormente il tema: non sono solo “dolci”. Sono tante (9 mila solo nella provincia di Vicenza) e preparate: donne caratterizzate da alta qualificazione, conoscenza di varie lingue, preparazione tecnica notevole e una sensibilità psicologica sconosciuta a tanti parenti italiani.
Sottovalutare l’Altro per disumanizzarlo
Riconosciamo i paesaggi veneti delle periferie: campagne e capannoni industriali fra una ricca cittadina e l’altra, avvolti nella nebbiolina. Lontano dal potere culturale e nel cuore dell’economia locale, i lavoratori stranieri moltiplicano la ricchezza della regione, una potenza economica le cui esportazioni superano quelle nazionali della Grecia. Ma i lavoratori stranieri sono invisibili nei luoghi di ritrovo del centrocittà, e nei discorsi sull’identità collettiva veneta. La grande abilità del film risiede nel puntare i riflettori sull’universale, italiana e veneta tendenza a dare per scontato l’Altro. Questo distacco è alla radice dell’ostilità, perché disumanizza gli stranieri, per poi renderli perfetti capri espriatori di una violenza verbale che associa pedagogicamente i “nemici” a perversioni varie (“zingari ladri, fondamentalisti islamici, fancazzisti albanesi, prostitute nigeriane: prendete il cammello e andate a casa!”). A questo proposito, il fatto che i protagonisti stranieri siano più una presenza emotiva che degli interlocutori reali, è funzionale al senso del film. Si tratta appunto di guardare con la lente d’ingrandimento alcuni “nostri” limiti.
Mediocrità maschili e diritto alla tenerezza
Dell’ottimo cast risaltano gli straordinari Diego Abatantuono e Valerio Mastandrea, motori dell’ironia e dell’umanità della trama. Entrambi rappresentano opposte “mascolinità” italiane, che giocano sul doppio filo della mediocrità (negata o ammessa) e della tenerezza (nascosta o riconquistata). Nel film queste due mascolinità sono esuberanti rispetto ai personaggi femminili. Questi ultimi sono più numerosi ma più discreti, più sagaci e aperti rispetto alla multiculturalità. Non si sentono “minacciati dagli stranieri”, forse perché non si trovano a difendere illusioni di monopoli: sul corpo dell’amato, sul patrimonio di famiglia, sul territorio degli avi. Questo distacco dal possesso tout court li rende meno rigidi e aggressivi dei personaggi maschili. Ad eccezione, certo, della turpe moglie veneta del protagonista.
Quella del personaggio di Abatantuono, l’imprenditore e produttore televisivo Mariso Golfetto, è una mascolinità spaccona, donnaiola, maschilista: ha bisogno di dominare in pubblico perché castrato e malsopportato nel privato. Abatantuono interpreta magistralmente l’imprenditore “padrone” che passa in rassegna il lavoro compiuto da Altri (i lavoratori stranieri), anche se tutto lui lo percepisce come “mio” (il lavoro e i lavoratori). E´ irresistibile quando si trastulla con spade, fucili e armi di ogni tipo, chiaro simbolo dell’ossessione fallica. Nella sua cosmovisione, esiste una gerarchia di “padroni”, dove il capitalismo si mescola al religioso: lui si dichiara “portavoce del Paròn”, ossia di Dio. La ricchezza lo ha spogliato di ogni umiltà, e con fare gradasso, racconta il suo sfruttare i lavoratori immigrati come uno spirituale “fare beneficenza”. Marito e padre fallito, nasconde il diritto all’affetto in grande segreto.
Un monologo cavernicolo, inno all’ipocrisia di chi si arricchisce sulla pelle degli altri
Nel celebre monologo di “maledizione” nei confronti dei migranti, presunti colpevoli di alterare il tessuto sociale, rendere i punti di riferimento culturali da assoluti a relativi, moltiplicare le lingue e i menu per le strade, o addirittura designati come “criminali” e propensi all’ozio, il riferimento indiretto alla Lega Nord più Borgheziana è evidente. Si tratta però di un capriccio della sceneggiatura, una tentazione alla quale il film sa resistere. Immediatamente ci si ricorda dell’attuale scandalo della Mastrotto Group, una multinazionale del settore conciario con sede ad Arzignano (25 mila abitanti in provincia di Vicenza): 800 dipendenti irregolari, 1.3 miliardi di fatturato non dichiarato, per una evasione di 106 milioni al Fisco. I riflettori dell’intolleranza puntano solo sull’ “illegalità” degli Altri, pesciolini rispetto ai nostro sistema-squalo.
Universo veneto che si trasforma continuamente
“Cose dell’altro mondo”, non è un documentario politico sul leghismo zotico, bensì un racconto grottesco e magico delle domande che ci poniamo nei confronti dell’Altro, e dei sentimenti che questi ci suscita. Infatti, si cita l’analogia fra l’avversità nei confronti dei meridionali (nel passato) e quella verso gli stranieri (oggigiorno). Ottima anche l’analisi di come gli studenti delle elementari già si esercitino nel ripetere gli stereotipi razzisti uditi in famiglia (“lo dice mia mamma”). L’istituzione scuola non viene mostrata come in grado di gestire le sfide dell’interculturalità in classe, eppure il personaggio della maestra, interpretato da Valentina Lodovini, è sensibile e raffinato, e accompagna gli studenti nel processo di “riconoscimento” del compagno e della compagna assente.
Questo contrasto fra l’impreparazione delle istituzioni e lo sforzo dei singoli individui (nel campo della salute, dell’educazione, dei servizi sociali) per educarci alla convivenza, rispecchia correttamente “l’universo Veneto”. Né mito, né lager per gli immigrati. Bensì un terreno di sperimentazioni contraddittorie, dove fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Nella seconda parte del film, quando l’introspezione dei personaggi matura, è il segreto amoroso dell’imprenditore, l’unico stimolo capace di strappargli una lacrima e di relativizzare tutto ciò a cui prima teneva: il potere materiale, e il suo gemello, il potere sugli altri.
Il perdente che sa proteggere
La mascolinità del personaggio di Mastandrea, il poliziotto Ariele Verderame, è meno tragicomica e più realista. In vacanza nel Veneto, entra in crisi fra la madre anziana con l’Alzheimer e l’ex-fidanzata, felicemente incinta dell’amore africano. Rifiutato da entrambe, incapace di comunicare se non usando metodi polizieschi che lo rassicurano nella sua virilità, Mastandrea interpreta un personaggio commuovente, privo di risposte per la sua vita ma che acquista coraggio, nel tempo, come un ragazzino che cresce se rassicurato. E´ il perdente che sa proteggere, il superficiale che improvvisa un xenofobia gelosa, ma che detesta il razzismo e lo punisce (ottimo anche l’interprete del “paramilitare locale”, un hooligan glaciale). Il sottovalutare l’Altro, in questo caso la donna o l’uomo nella relazione affettiva, come primo passo verso l’incomunicabilità. Solo l’accettazione trasforma l’asprezza in ironia.
Risate feroci e imbarazzate
Il film punta l’indice sulla narrazione banale e irriconoscente dell’etnocentrismo localista, che proclama “noi lavoriamo, gli Altri no”. Si toglie il cappello davanti ai cittadini immigrati, che costruiscono con noi la quotidianità dell’Italia produttiva, dell’Italia che ama e dell’Italia che si prende cura dei più deboli. Il lavoro silenzioso della Chiesa cattolica per proteggere i diritti degli immigrati clandestini è evidenziato nel cameo del prete, una figura più sociale che religiosa. La sceneggiatura è spumeggiante e si ride con ferocia e imbarazzo. Solo il cinema può provocare certe catarsi collettive. Una grande commedia, speziata anche dall’anima dialettale, che si impossessa dello humour, della quotidianità e del “discorso chiaro” (sempre emotivo), rispetto all’italiano, lingua franca ma distante. Cosa sono le “cose dell’altro mondo”? Il fatto che “gli stranieri” spariscano? O che, sentendoci persi senza di loro, ci riconosciamo interdipendenti?
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).