Improvvisare. Arraffazzonare misure d’intervento che in nulla assomigliano a soluzioni. Questi i tratti della politica di governo di fronte all’emergenza dei migranti che sbarcano sull’onda delle rivolte del Nord Africa. Proclami ed azioni basate su una leghistissima intolleranza ed una scarsa lungimiranza. Misure tra cui si colloca anche l’apparente cambio di rotta con cui l’esecutivo ha rilasciato i permessi di soggiorno temporanei, che, in realtà, sono perfettamente in linea con la mentalità escludente e stigmatizzante della maggioranza.
Per come è stato condotto, solo un modo di rimandare la soluzione del problema di tre mesi sperando che nel frattempo i migranti si ingegnino a scappare. Poco importa se il permesso temporaneo per legge non è valido oltre i confini del Paese che lo rilascia. Poco importa se quando questi ragazzi arriveranno in Francia, che è la terra a cui mirano, saranno di nuovo irregolari e passibili sanzioni. L’importante è “svuotare la vasca” – con una metafora che piace tanto al ministro Maroni – se poi questi giovani non risolvono la complessità della loro condizione ed il problema flussi diventa di qualcun altro, tanto meglio. Così ci pensavano prima a intervenire a livello dell’Unione Europea.
E mentre la politica attacca e stacca definizioni, le parole scelte per individuare questi migranti vanno oltre il piano della retorica ed arrivano ad incidere sulla vita delle persone. Perché i termini, oltre la propaganda, corrispondono a condizioni giuridiche diverse. Diritti riconosciuti, concessi o negati.
Se ripercorriamo le tappe compiute da questi ragazzi e scandite dalle direttive del governo troviamo un iter confuso, dove il file rouge è, e resta, l’indifferenza verso la tutela. Già i primi attracchi sulle coste italiane hanno fatto aprire un dibattito sullo status da attribuire ai nuovi immigrati. Tutti concordi nel riconoscere che i tunisini non rientravano nei casi d’asilo. Perché non fuggivano da un Paese in guerra od in cui rischiavano persecuzione, ci si è divisi sul considerarli “sfollati” o “clandestini”.
La prima era la posizione dell’associazionismo, dove per tutti si possono ricordare la dichiarazioni del presidente della Caritas che, sostenendo che in Tunisia vigesse comunque una situazione sociopolitica caotica, sottolineava come questi migranti non potessero essere considerati semplici irregolari, ma stranieri cui accordare un permesso temporaneo per motivi umanitari. Diversa l’opinione del governo italiano. Fino a due settimane fa, messo in scacco dalla posizione del Carroccio, ha sostenuto senza esitazione che i tunisini fossero clandestini, partendo dall’assunto che in Tunisia non sussistesse nessuna situazione di emergenza tale da giustificare l’emigrazione.
Così questi ragazzi sono stati trattati come chi è imputato di reato di clandestinità e trasferiti nei Cie, centri di identificazione ed espulsione, i luoghi che la politica riserva agli stranieri senza permesso di soggiorno. Fino alla settimana scorsa le camerate del Cie di Bologna erano piene di tunisini arrivati dopo il rovesciamento di Ben Ali, detenuti in una condizione di totale privazione della libertà personale.
Per fare loro spazio, i migranti che li hanno preceduti erano stati fatti uscire di gran fretta, senza attendere il limite massimo dei sei mesi previsto dal Pacchetto Sicurezza. Come la maggior parte dei trattenuti, non erano stati concretamente espulsi, ma rilasciati con un foglio di via che li intimava a abbandonare il paese entro 5 giorni, trovando da soli i mezzi per farlo, pena incorrere in un reato punito col carcere. Mentre i tunisini, finché c’era spazio, sono rimasti nei Cie, è arrivato il tempo dei vertici con la Tunisia. E lì la dialettica ha cominciato a cambiare. Con la speranza di portare a casa un accordo sui rimpratri, il governo ha prudentemente preferito sostituire il “clandestini”.
A tolleranza zero, col più neutro “migranti”. Il Carroccio ha iniziato ad allentare la tensione intorno alla possibilità di concedere i permessi temporanei e sabato scorso gli stranieri sono stati rilasciati. L’assurdo, o meglio, la testimonianza dell’assoluta mancanza di predisposizione alla tutela, è che non sono stati rilasciati col permesso. Per quello han dovuto attendere 10 giorni. Dove e come non si sa. Al Cie di Bologna per fortuna esiste un servizio di sostegno alla persona, il “Progetto Sociale”, che ha segnalato la situazione al Comune ed i tunisi in attesa di regolarizzazione provvisoria sono stati presi in carico dal dormitorio Sabatucci. Una volta ricevuto il permesso però, potrebbero essere lasciati in balia della loro sorte come è già capitato ai loro compagni di viaggio nelle altre città italiane, dove i Cie non hanno nessun “Progetto Sociale” al loro interno.
Quando otterranno il foglio, probabilmente proveranno a fare ingresso in Francia, come il nostro governo si augura. Cosa li attenda non è dato saperlo. Vedremo se almeno a livello europeo verrà intrapresa una politica seria o se ci si limiterà alle solite etichette, che piuttosto che risolvere problemi, continuano a crearne.
Giada Oliva, giornalista, si è occupata a lungo di Paesi in via di sviluppo e di cooperazione internazionale. Attualmente lavora nell'ambito della comunicazione politica e continua a seguire ciò che accade dall'altra parte del pianeta.