Se c’è un personaggio nel quale m’identifico pienamente da qualche mese a questa parte, è senz’altro quello di Marta, la giovane precaria siciliana del film di Virzì “Tutta la vita davanti”.
Da quando sono andata via dalla mia città, Catania, subito dopo essermi laureata, ho la sensazione di vivere dentro una bolla, sospesa, ed ogni situazione è per me nuova e surreale. La mia è una delle tante storie di precari, di meridionali col fuoco negli occhi e nulla nelle tasche, con la speranza nel cuore e le immagini di un paese in sfacelo nella mente. Ma al di là della retorica e dei cliché, la mia non è una storia di disperazione: ho lasciato una casa confortevole a spese zero ed il privilegio di cercare lavoro senza troppi patemi, che prima o poi una raccomandazione l’avrei avuta; ho semplicemente preferito tirare fuori la testa dal guscio e tastare con mano l’impegno, la difficoltà e la sensazione di trovarsi sull’orlo di baratro tipica di chi non ha un futuro certo.
Da brava siciliana, sono andata via dalla mia terra come i miei nonni ed i loro figli prima di me, sentivo di doverlo fare, non per fame ma per necessità di evolvermi, perché sentivo di non aver più nulla da fare a Catania, ed in effetti trascorrevo le mie giornate in casa, sempre uguali. Sono andata a Milano perché ho un sogno nel cassetto (ho preventivamente collocato una scorta decennale di antitarme, in quel cassetto), ossia diventare una giornalista. E non una giornalista qualsiasi, magari una brava giornalista. Per poter diventare brava, ho bisogno di uscire dal siculo recinto, di fare nuove esperienze e mettere in discussione le mie abitudini tout court, di potermi almeno illudere di avere qualche chance in più qui che nell’asfittica realtà editoriale catanese.
Chiaramente tra il dire e il fare ci sono di mezzo parecchi mari (ed insidiosi litorali, e porti, e dazi salati da pagare). A Milano non ho trovato esattamente ciò che cercavo. Di una giovane neolaureata quasi-giornalista non se ne fa niente nessuno, intendo dire che nessuno vuole pagare una ventiquattrenne per occuparsi di articoli o interviste che qualcun altro farà gratis, e che nove volte su dieci si prediligono i curriculum “gonfiati” (fenomeno interessante, lo ammetto) di persone che millantano competenze e capacità che non hanno, confezionano alla meglio il pacchetto e pare che questa strategia funzioni. Ovviamente le offerte di “stage gratuito” o di “collaborazione volontaria quindi non retribuita” non mancano. Vanno alla grande anche le “fashion blogger” o gli “esperti di new media” (ma talvolta anche essere laureati alla Bocconi o avere un proprio blog possono costituire un titolo preferenziale; requisiti importanti, insomma), molto richiesti gli stagisti tuttofare-senza-pretese. Non ho mai ricevuto risposta da nessuna delle aziende che ho contattato in risposta ai loro annunci, chiaramente non mi sono rivolta al Corriere
della Sera, ma a semplici testate telematiche locali. Una bella sferzata inferta al mio ego: «Tanto non mi vogliono manco come fashion blogger, a me» – ho detto l’altra sera al mio ragazzo in un momento d’ottimismo.
Date queste premesse ho iniziato a cercare un lavoro qualsiasi e l’ho trovato, ovviamente a tempo super-determinato e senza la possibilità di pormi domande sul mio futuro o di sapere se mi verrà rinnovato o meno fino a pochi giorni prima della scadenza; “oggi il lavoro c’è, domani si vedrà”, intanto io ed il mio compagno abbiamo avuto difficoltà nel trovare casa in affitto perché siamo precari e quindi non “sicuri”. Poco importano le garanzie fornite o che in Italia oggi ci siano tantissimi precari, che essere precario non significa necessariamente essere disoccupato, quel “1 Novembre” indicato come data di scadenza del rapporto lavorativo è uno stigma.
Alla fine abbiamo trovato un buco (ma qui lo chiamano “monolocale”) dove grazie al cielo non manca nulla, abbiamo persino il posto per la bici! Attualmente lavoro come commessa in un negozio del centro, sto sempre a contatto con le persone – tantissime persone, forse troppe – e con i turisti. I colleghi di lavoro si sono accorti della mia bravura nel parlare inglese e spesso mi chiedono di tradurre e di interfacciarmi con i clienti stranieri. A proposito di colleghi, i milanesi si contano sulla punta delle dita: qua siamo tutti meridionali o di origine straniera (la famosa seconda generazione sulla quale si potrebbe e dovrebbe dire tanto!). In metrò, in giro per le strade, nei negozi, almeno il 50% delle persone sono straniere: africani, mediorientali, sudamericani, slavi. I loro figli sono nati in Italia ed hanno l’accento milanese; non è sempre possibile parlare d’integrazione a tutti gli effetti, perché a pulire sono sempre i filippini, ma non mancano manager o responsabili di origine marocchina o thailandese.
Alcune delle cose che mi fanno sorridere, a lavoro (e sorrido spesso: i miei colleghi pensano che io sia gentile e serena) sono l’auto-applauso di gruppo che lo staff si rivolge all’inizio d’ogni giornata; oppure quello che io chiamo “questionario-standard-per-meridionale” costituito dalle tipiche domande “Ma come mai sei venuta a Milano???” (detto con immenso stupore), “Ma come fa una siciliana a non essere abbronzata, non vai al mare?” (detto durante il mese di agosto, mentre io lavoro sostituendo coloro che vanno in ferie) e, dulcis in fundo, “Non ti trovi bene a Milano, vero? Questa città fa schifo”; da segnalare anche l’utilizzo di termini inglesi in tutte le situazioni: non si dice “timbrare”, ma “clockare”, non si dice “facile”, si dice “easy”, e via discorrendo.
Giusto per la cronaca, a me Milano non fa affatto schifo, pur con tutte le sue stranezze e le sue contraddizioni. Lungo la stessa strada ho visto camminare una ricchissima famiglia araba con mogli e nidiate di figli al seguito, bellissime modelle bionde, e ho visto un uomo lavarsi alla fontana, a torso nudo, alle sei e mezza del mattino, temperatura cinque gradi. Molte persone sembra soffrire in questa città così spersonalizzata e ansiosa, dove non incontri mai le stesse persone e dove vanno tutti di fretta, dove non ci si osserva l’un l’altro con fare sospettoso e ironico: cose inaudite, per una catanese. Sarei ingiusta nei confronti di Catania se dicessi di aver trovato il paradiso a Milano, ma la realtà dei fatti parla da sé: tre lavori (con contratto) trovati in tre mesi contro mezzo lavoricchio (alla bell’e meglio) in ventitré anni.
Con i soldi che guadagno, cerco di pagare, oltre alle spese, il mio sogno di difficile realizzazione. Sto per diventare pubblicista in Sicilia, con molte perplessità ed altrettanto dispendio monetario, e l’anno prossimo vorrei provare ad entrare, alla prestigiosa scuola di giornalismo milanese, pagando solo 6000€ l’anno, ma continuando di questo passo 6000€ non li avrò nemmeno fra una vita.
Fare la commessa, la promoter, la cassiera, la centralinista o lavorare per delle schifose multinazionali non mi rende soddisfatta, soprattutto intellettualmente e moralmente, ma sperare che questa sia solo una fase transitoria mi aiuta. Per moltissimi miei coetanei e conterranei è così: sì, si confezionano lussuosi pacchetti per quel che rimane della “Milano bene” e ci si consola pensando che, in fondo, abbiamo tutta la vita davanti.
Ornella Balsamo collabora alla rivista antimafia "Casablanca" (www.lesiciliane.org), diretta a Catania da Graziella Proto.