Hikikomori, sindrome che isola i ragazzi dal mondo reale
Arriva in Italia l’anoressia sociale che ha sconvolto il Giappone
Quando un ragazzo chiude la porta della stanza dove dorme e studia, padre e madre lo pensano piegato sui libri i libri della lezione del giorno dopo, o videogiochi o tentazioni del web. Succede che la porta a volte non si apre per giorni, settimane, mesi. Il cibo viene passato attraverso una fessura. Genitori disperati si arrendono e vivono così una situazione tutt’altro che “normale” e la famiglia trema. La sindrome, definitasi nel tempo dall’attenta, osservazione di medici specialisti in psichiatria e in psicologia, porta un nome giapponese: Hikikomori.
Hikikomori, si traduce, “stare in disparte”. Isolarsi, insomma. È un fenomeno in evoluzione ormai radicato nel contesto sociale nipponico, fenomeno in espansione. Si è allargato negli Stati Uniti e in Europa. È arrivato nel nostro in Italiae sostituendosi e/o sovrapponendosi ai disagi relazionali che, più sintonici al nostro contesto sociale, presentano maggiore incidenza nel nostro paese . Il termine “hikikomori”, contrazione di shakaiteki hikikomori (ritirarsi dalla società), è stato coniato negli anni ’80 per indicare un disagio preoccupante apparso in Giappone dieci anni prima.
Disagio relazionale adolescenziale espresso da una percentuale preoccupante: secondo una stima del Ministero della sanità giapponese il 20% degli adolescenti maschi sarebbero Hikikomori, anche le ragazze sono coinvolte seppure in percentuale inferiore. Numeri importanti: 1milione di adolescenti e giovani adulti che si ritirano dalla vita pubblica tagliando ogni coinvolgimento sociale. Scuola, sport, divertimenti: familiari ed amici improvvisamente estranei al loro mondo chiuso.(1)
Ragazzi e ragazze che non parlano, non rispondono, rifiutano la vicinanza di altre persone, si chiudono alla realtà che li circonda sottraendosi ad ogni contatto fisico. I familiari diventano guardiani di una prigionia volontaria. La vita fuori non li interessa. Non passeggiano nelle strade, si negano la “porzione di cielo” che fa respirare l’adolescenza, abbandonano la scuola allontanandosi sempre più dalla concretezza della normalità per rinchiudersi in una esistenza virtuale. E internet diventa lo strumento per raccontarsi, trovare soluzioni, cercare nuovi amici. Gli amici che non possono toccare non li spaventano. Diventano feticci con lo stessa vitalità rattrappita: con loro trovano la sintonia. Cercano rifugio in un universo nel quale “non si corrono rischi” soprattutto in ambito relazionale. Le modificazioni del tono dell’umore, le alterazione del vissuto temporale, la cognitività completamente orientata all’utilizzo compulsivo del mezzo contribuiscono a definire e ad aggravare il disagio.
Questi ragazzi dipendono dalla negazione di ogni tipo di partecipazione concreta ai riti normali degli altri; diventano schiavi di una vita sedentaria nel guscio di un ambiente protetto e distinto da un proprio linguaggio, un certo modo di vestirsi, comportamenti da contrapporre al mondo reale nel quale sono ( o erano ) abituati a vivere.
“Mi chiamo Masamura Kanda, ho 22 anni e lavoro nel campo dei computer. Sono nato a Tokyo, adesso vivo nel quartiere Koganei.
Mi è difficile comunicare. Quando incontro persone nuove sto male. Oggi usiamo il video-cellulare, così non dobbiamo incontrarci. I miei genitori non l’avevano.
Sono felice quando gioco ai videogames o guardo i films. Da bambino giocavo ai videogiochi e ancora oggi trovo sia più facile giocare da solo che non giocare con gli altri.”
“Mi chiamo Yasuaki Wada, ho 21 anni, vengo da Nigata, ma ora vivo a Tokyo Koganei, sono un hikikomori.
Hikikomori significa: nascondersi nel proprio guscio. Significa oscurità, tristezza, solitudine.
I miei genitori non avevano i videogiochi, giocavano in strada con gli amici e penso fosse un bene.
Stare in casa è confortevole, fuori c’è tanta gente! Conoscere gli altri può essere doloroso, preferisco non vedere facce nuove, anche perché non so cosa fare della mia vita.
Gli “Hikikomori” hanno problemi di comunicazione, paura di uscire e mescolarsi: forse perché temono le interferenze di altri.”(2)
Testimonianze cariche della paura del vivere che caratterizza questo tipo di nuove generazioni. In ogni cultura l’espressione di tale paura assume connotazioni caratteristiche sino a confluire in un atteggiamento comune: autoesclusione dalla vita sociale.
Se nel nostro paese gli adolescenti e i giovani adulti, spaventati da un contesto che non riconoscono e nel quale vivono sentendosi inadeguati ed impotenti, sviluppano dipendenze legate al consumo di sostanze obnubilanti e/o dipendenze dominate dalla negazione dei bisogni primari, nel Giappone dove tradizioni antichissime sono sconvolte dal vortice della “crescita” globale, l’autoesclusione dell’Hikikomori. Assume dimensioni sempre più pericolose.
L’utilizzo travolgente delle nuove tecnologie, associato alla decadenza dell’umanesimo della tradizione è forse il maggior responsabile del dilagare della sindrome.
Negli Stati Uniti lo psichiatra Ivan Goldberg la definisce Internet Addiction Disorder (I.A.D.), dipendenza che si manifesta sotto forma di sintomi astinenziali e di tolleranza.(3)
Sintomi che Goldberg riassume così:
1. bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per ottenere soddisfazione;
2. marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano Internet;
3. sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa accade on-line, classici sintomi astinenziali;
4. necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
5. impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l’uso di Internet;
6. dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete;
7. continuare a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici che la frequentazione della rete procura
.(http://www.dipendenze.com/nuovedipendenze/internet.asp)
Gli elementi in comune riguardano le modificazioni psicologiche che si manifestano in chi dipende dalla rete: perdita delle relazioni interpersonali, modificazioni dell’umore, alterazione del vissuto temporale, cognitività completamente orientata all’utilizzo compulsivo del mezzo. Intendenza a sostituire il mondo reale con un oggetto artificioso, quasi una sorta di “feticismo tecnologico”, con il quale riesce a costruire un mondo personale. Mondo virtuale che ricorda il mondo del tossicodipendente che ha un proprio linguaggio, uno specifico abbigliamento, atteggiamenti e comportamenti lontani da quel mondo reale nel quale dovrebbe, ma non può vivere.
La rete internet favorisce l’insediarsi di intensi e piacevoli sentimenti di fuga. La fuga di chi non riesce a confrontarsi con la realtà. Ecco che si illude di superare in maniera accettabile i problemi difficoltosi della vita sociale con l’effetto illusorio e transitorio del virtuale, effetto appagante del “trip” da stupefacente.
La sublimazione permette poi l’instaurarsi di un vissuto di onnipotenza strettamente connessa con l’illusione del superamento dei limiti spazio-temporali. Qualunque sia la ragione di partenza per avventurarsi nella navigazione on-line, si impara a trovare ciò che serve. Spazio nel quale gli hikikomori si rilassano. Cominciano ad uscire sempre meno dall’illusione che li rasserena nell’illusione che uscire semplice e veloce come aprire il frigo e prendersi qualcosa da mangiare al volo”. Ma il tempo sembra fermarsi in rete. Induce alla pigrizia indurre e collegamento dopo collegamento, intrappola trasformando i minuti in ore, in giorni, in mesi. Diventano anni. Il distacco dal reale sollecita l’aggressività contro il disturbo che la realtà negata produce in chi vuole vivere un personale modo di vivere virtuale in parallelo alla vita degli altri. Succede agli alcolisti: si ripromettono:”solo un bicchierino … per stare in compagnia” pur sapendo che l’ultimo è sempre il primo. Chi vive nel tempo senza tempo della rete si ripromette “ancora un minuto e spegnerò … un minuto non fa la differenza…”, ma quel minuto diventa ore e giorni.
La negazione del problema complica la richiesta. È difficile chiedere aiuto per qualcosa che non si vuole riconoscere un problema.
Quando questi ragazzi vengono messi davanti all’evidenza di un comportamento tossicomanico si nascondono dietro il luogo comune secondo il quale internet è grandioso e “non può far male” Perché la rete è una vetrina di una modernità sempre in allestimento. Ogni persona sceglie come viverla ma come nella vita “reale” si possono imboccare strade “corrette” e strade “pericolose”. Ogni giorno molti naviganti rischiano di allontanarsi dai rapporti interpersonali “faccia a faccia”, insomma dall’equilibrio di una esistenza normale, preferendo relazioni virtuali le quali portano alla proiezione dell’io in uno spazio non fisico che affascina soprattutto l’adolescenza per la velocità e l’ampiezza geografica dei rapporti. Dietro monitor i fragili si sentono protetti e capiti.
Il dott. Tamaki Saito (direttore del Sofukai Sasaki Hospital) (http://homepage3.nifty.com/tamakis; http://www.sofu.or.jp ), considerato il maggior esperto della sindrome di Hikikomori, rivolge l’attenzione alla causa della malattia, alla complessità della cultura giapponese in quanto il substrato riferibile all’espressione sociale della dottrina di Confuxcio con annesso imponente ed enfatizzata componente rientrante nella cosiddetta “pietà filiale” in una società in corsa verso la conquista tecnologica globale, parrebbe compatibile al disagio che i giovani devono imparare a tollerare nel corso della loro crescita: “Meglio isolarsi che competere!”, in quanto il rischio di fallimento pare troppo elevato in relazione alla consapevolezza delle proprie capacità.
Un “farsi fuori” dal gioco della vita teso a difendersi da ipotetici e probabili delusioni procurate ai genitori animati da elevatissime aspettative nei confronti del futuro professionale dei loro figli; del resto il paese in netta “evoluzione” ha bisogno di imponenti forze capaci di mantenere il livello e, se possibile, elevarlo.
Claudia Pierdominici nel corso di un’intervista al dott. Saito pone la questione, visti i logici e conseguenti presupposti dell’autoesclusione, dell’incidenza di suicidi in Giappone; il dott. Saito afferma con sicurezza che in realtà la percentuale di suicidi tra gli hikikomori è molto bassa in contrapposizione con ciò che invece i ragazzi tendono a dichiarare. In realtà, come possiamo vedere nelle espressioni sintomatologiche autoescludenti (vedi anoressia nervosa) a noi più note, il marcato narcisismo evidenziabile negli hikikomori li salva: una sana espressione di autocompiacimento impedisce loro di togliersi la vita, vorrebbero ma non possono.
I Paesi a tutt’oggi maggiormente colpiti dal fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana nell’ambito della quale, come si diceva, la cosiddetta “pietà filiale” assume una connotazione enfatizzata ed opprimente. Amae è entrato nel lessico analitico-sociologico come sinonimo di “dipendenza” o di “indulgenza” nelle relazioni interpersonali che caratterizzano la società giapponese, in primis le relazioni parentali, dalle quali ci si aspetta un certo grado di soddisfazione emotiva
Nel contesto della cultura occidentale l’autoesclusione, di per se presente, tende ad esprimersi piuttosto attraverso le dipendenze da alcool, droghe e negazione dei bisogni primari (disturbi del comportamento alimentare, in particolare anoressia e bulimia). I giapponesi, vivendo in un contesto molto attento al gruppo e all’armonia, invece di esporsi reagendo concretamente, preferiscono il silenzio. I prodromi della sindrome vanno ricercati nell’abbandono scolastico seguito dal graduale rifiuto di ogni contatto con l’ambiente esterno. Il soggetto non pare mostrare particolari caratteristiche nell’ambito della struttura di personalità, certo è che l’isolamento dal quale diviene dipendente può indurre nel tempo sintomi importanti quali antropofobia, paranoia, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.
In un bell’articolo firmato da Maggie Jones comparso sul New York Times del 15 gennaio 2006, ”Shutting Themselves In” (http://www.nytimes.com/2006/01/15/magazine/15japanese.html?pagewanted=1&_r=1 ), si raccontano storie di giovani che rinchiudono in piccole stanze le loro vite adolescenziali vissute in maniera differente da ciò che loro stessi credono che il sistema pretenda. Sono storie come quella di Takeshi, 15 anni, che una mattina chiuse la porta della sua camera da letto e per i seguenti 4 anni non ne uscì. Non frequentava la scuola, non lavorava, non aveva amici. Mese dopo mese passava 23 ore al giorno in quella stanza non più grande di un materasso a tre piazze, stanza ove mangiava gnocchi, riso e altre pietanze che la madre gli cucinava, guardava i game-shows televisivi ed ascoltava i Radiohead e i Nirvana. “Qualcosa” diceva “che fosse oscuro e suonasse disperato”.
Soprattutto i maschi adolescenti si percepiscono sottoposti a pressione sociale quando confluiscono nelle scuole secondarie, in quanto pare giocarsi il successo personale in pochi anni, vista la competizione sociale in atto, come afferma James Robertson, antropologo culturale al Tokyo Jogakkan College ed autore del saggio “Men and Masculinities in Contemporary Japan.” . “Noi giapponesi crediamo agli occhi degli altri – scrive il dottor Tamaki Saito – ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati”.
Tale pressione parrebbe indurre la messa in atto di un meccanismo di difesa che, come tutte le espressioni di autoesclusione, altro non può che trasformarsi di offesa.
Continuando a seguire la sequela di interviste riportate dal documentario di Francesco Jodice e Kal Karman si può osservare come i ragazzi giapponesi si percepiscono in relazione al contesto sociale nel quale devono vivere:
“Sì, forse ci sono più ‘Hikikomori’ maschi, in quanto i maschi sono deboli, più deboli delle donne. Io penso che siano malati, sono in tante le persone che si percepiscono frustrate nel comunicare. Credo che i giapponesi non siano capaci di comunicare in quanto sono ragazzi timidi, non come gli italiani e gli americani che non lo sono e che comunicano molto bene, i giapponesi … no!
A casa le madri parlano molto, mentre i padri non lo fanno. Il figlio osserva il padre e in tal modo impara a non reagire.
“In Japan, mothers and sons often have a symbiotic, co-dependent relationship.
Mothers will care for their sons until they are 30 or 40 years old.”
(Rees 2002)
(in Giappone madri e figli spesso solo legati da un rapporto simbiotico, un rapporto co-dipendente.
Le madri si prendono cura dei loro figli sino a che essi non abbiamo raggiunto i 30 40 anni – Rees 2002)
Negli anni ’80 la rabbia giovanile veniva fuori, oggi, invece, la rabbia, le emozioni sono represse.
I nostri genitori volevano più denaro a disposizione e quindi lavoravano come bestie e non avevano tempo per i figli che si trovavano così nella posizione di potere fare qualunque cosa, senza regole, senza controllo.
Noi figli li abbiamo osservati a lungo e abbiamo deciso di non essere come loro.
Gli adulti ci considerano pigri e ci dicono: << trovati un mestiere e lavora duro!>>
Mio padre mi sgridava sempre, io mi sentivo frustrato, molti ragazzi sentono questo tipo di rabbia verso i loro genitori.
In internet puoi trovare molte pagine che trattano di suicidio, tutti possono “chattare”: tutti i giapponesi nascondono un piccolo desiderio di morire. (ndr: il suicidio degli adolescenti è il fenomeno sul quale dibattono da tempo infinito psicologi e filosofi ).
Alle volte a scuola i compagni ti escludono, in certe famiglie il padre picchia il figlio.
Oggi i ragazzi non incontrano molta gente, è come se ci mancasse una ragione per vivere.”
Le considerazioni di questi ragazzi non differiscono da ciò che si ascolta in ambulatorio quando ci si trova dinanzi un soggetto affetto da sindrome relazionale che tende comunque a creare una condizione di isolamento sociale, sia che essa si esprima attraverso l’uso-abuso di droghe, sia che passi attraverso un disequilibrato rapporto con il cibo e/o con il corpo.
In Italia, così come in tutto il mondo occidentale, gli adolescenti e i giovani adulti autoesclusi sembrano un fenomeno in crescita: una risposta ad un contesto sociale omologante, coartativo, frustrante esprimente, attraverso le sue dinamiche, aspettative di “perfezione” e di adattamento ad un archetipo poco umano e sempre più virtuale. La criticità di pensiero così caratterizzante l’individuo nella sua espressione più adeguata al ben vivere si è trasformata in induzione al disagio ed è così che ragazzi brillanti, intelligenti si trovano a scontrarsi contro modelli di riferimento, così importanti nella fase adolescenziale ove l’identificazione rappresenta l’essenza, “costruiti in laboratorio” in sintonia con le esigenze del sistema che, così come si propone oggi a salvaguardia di se, controlla appiattendo il pensiero critico, abbattendo ogni forma di comunicazione che non sia quella codificata.
La risposta non può essere che la rinuncia al vivere, in quanto il vivere diviene frustrante ed inadeguato. La forza della rinuncia si autoalimenta tanto da trasformarsi nell’unica occasione per percepirsi, pur nella sua vacuità. Risulta difficilissimo entrare in un mondo difeso quale risulta essere il loro, conseguentemente gli scambi, anche quelli più intimi e confidenziali, si interrompono, ragion per cui anche e soprattutto la famiglia vacilla nelle sue dinamiche relazionali e, seppur con la volontà di portare aiuto, tende a rinforzare l’isolamento.
Decade ogni capacità decisionale e scatta una lotta contro un nemico all’apparenza impossibile da contrastare, in quanto riesce a nascondersi in ogni pensiero, in ogni obiettivo, in ogni azione, meglio agire la rinuncia!
La compulsione dominante il sistema sociale diviene l’unico strumento di proposizione: non esiste più il tempo individuale, così importante per definirsi, conoscersi ed affermarsi, viene sostituito dal “tutto e subito” stabilito dal contesto come se questo aderisse al concetto di perfezione tanto ambita quanto temuta ed irraggiungibile, quindi castrante.
Le famiglie d’origine, anch’esse travolte dalla sindrome ossessivo.-compulsiva sociale, si piegano alle stesse dinamiche nutrendo elevate aspettative nell’ambito dell’affermazione dei loro figli spingendoli in un cuneo buio dominato dall’impotenza. La spinta genitoriale assume le caratteristiche dell’ossessività e della iperprotettività ed accende il fuoco della paura di non rispondere a siffatte aspettative oltre ad alimentare in maniera eccessiva e deviante quella sana componente narcisistica adolescenziale che, se accolta ed incanalata, potrebbe, invece, porre le fondamenta di una crescita personale solida e soddisfacente.
Fragilità e narcisismo ipertrofico associati sono i mattoni del muro che piano, piano i nostri figli costruiscono per tentare di viversi, ma che, al contempo, impedisce loro di vedere oltre, di spingersi verso la conquista di se verso gli altri con inevitabile rinforzo del proprio processo di emancipazione.
La virtualità, sia che il mezzo sia internet, sia che sia rappresentato dall’obnubilamento del sensorio e/o da altra sublimazione, pare semplificare e risolvere quelli che paiono essere problemi insormontabili proposti dalla vita.
Fromm già nel secolo scorso asseriva con forza che “l’obiettivo di ogni essere umano adulto dovrebbe essere quello di imparare a vivere nel rischio”, la lungimiranza di questa affermazione dettata in tempi non sospetti, non può che meravigliarci o rendere onore all’autore in quanto si rivela a tutt’oggi il nodo da sciogliere per riuscire ad avventurarsi lungo il sentiero che porta alla vita adulta. Oggi i nostri ragazzi scambiano il rischio di vivere con la stupida incoscienza che induce a credere che il rischio sia quello di correre ai 200 chilometri all’ora su di una strada statale magari con un’alcolemia responsabile di ottundimento sensoriale, conseguentemente si annullano nell’illusione di essere nel non essere.
Nessuna partecipazione, nessun confronto reale, nessuna relazione interpersonale passibile di scambio profondo e quindi proteso alla crescita individuale e collettiva … nessuna azione condotta seguendo i dettami della propria persona, nessun errore, nessun elemento capace di spingere in termini evolutivi.
La fragilità che traspare in questi ragazzi diviene potente induttrice di pregiudizi paralizzanti, pregiudizi che partono dalla convinzione, supportata dall’esperienza fuorviante il reale, di non essere mai all’altezza delle situazioni. Ogni difficoltà, al di là della oggettività, si trasforma in un ostacolo insormontabile e i possibili fallimenti si trasformano in blocchi inamovibili.
Il fallimento perde la sua connotazione volta ad accrescere il patrimonio esperienziale essendo l’errore lo strumento teso al cambiamento. Nel nostro contesto sociale pare non esservi spazio per l’errore, per l’essere umano nella sua umanità tanto imperfetta quanto essenzialmente perfetta nel disegno della Natura.
La cappa asfissiante del sistema si mostra un potente protettore quando invece paralizza l’ideazione individuale, l’emotività nella sua più sana espressione trasformando il piacere in un moto compulsivo inondante e soverchiante, cancella il valore del dolore quale prerequisito indispensabile all’acquisizione di quella fedeltà in se che riduce la fatica che in alcuni momenti pare impossibile da affrontare se destinata a lottare per il nostro bene, ma che ha il suo pre-sentimento nell’annunciarsi del piacere dove ciascuno di noi ha la possibilità di coincidere con se stesso, di riconoscere il corpo come suo e di riconoscersi in lui, quasi una risposta a un’attesa segreta, a un desiderio profondo eppure appena accennato.
Se non vi è contatto col mondo come può nascere il piacere che solo da questo contatto può prendere origine ? “Il gusto di questo frutto non è nel frutto, come nel frutto è la polpa o il succo, ma è nel suo lasciarsi assaporare, perché il piacere, lungi dall’essere una qualità della cosa, è ciò che la cosa risveglia in me, quasi una sua eco. Posso “prendere” un fiore, ma non il piacere del suo profumo; il piacere non lo prendo, lo incontro, lo scopro, lo sento nascere in me nell’entrare in contatto con la cosa o anche solo nello sfiorarla. La mano che vuole afferrare un piacere, se lo vede sfuggire, come se il piacere fosse sempre al di là della cosa, e non si concedesse se non a un contatto discreto e delicato. Come si diffonde l’eco, così mi invade il piacere che non può essere mai localizzato, delimitato ad un punto del mio corpo. Il piacere, infatti, coinvolge la presenza nella sua totalità e la rende piacevole; non è solo il mio corpo che sente, ma sono io che coincido pienamente con la sua sensazione, perché pienamente al mio corpo mi sono concesso.” (L’immaginario sessuale di W.Pasini, C.Crépault, U.Galimberti – Raffaello Cortina Ed. – 1988)
Il dott. Saito ha avviato un programma rieducativo chiamato New Start che prevede il recupero delle relazioni interpersonali attraverso un’azione di formazione-lavoro destinato all’instaurarsi di legami che possano fare da ponte tra il ragazzo disagiato ed il mondo. L’azione terapeutica tende a disavezzare il ragazzo dalla dipendenza, confrontandosi con le sue paure, rendendole oggettive e manipolabili tanto da riuscire ad affrontarle. I tempi necessari al fine terapeutico possono andare dai pochi mesi ad alcuni anni. (http://lostudiolo.exblog.jp/8367714 ; “Hikikomori New Start animation”, un film creato da Jonathan Harris per la Kingstone University nel 2008: http://vodpod.com/watch/1529738-hikikomori-new-start-animation ;
Il fenomeno Hikikomori viene descritto esaustivamente in una novella dal titolo: “Welcome to the N.H.K.” edita nel 2002 dalla Kadokawa Shoten, scritta da Tatsuhiko Takimoto ed illustrato da Yoshitoshi ABe ( http://video.google.it/videosearch?q=Welcome+to+the+NHK&oe=utf-8&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF-8&ei=lVrjSeGhAYaQsAaR-uTaCA&sa=X&oi=video_result_group&resnum=4&ct=title nel video è possibile vedere una puntata del cartone che si rifà alla novella sottotitolato in lingua inglese, video molto interessante e chiarificante il fenomeno in analisi)
Si legge dalle recensioni presenti in rete: “Welcome to NHK è un’opera coraggiosa. Non certo la prima opera del genere: già altri manga e anime hanno affrontato il tema degli otaku e dei loro disagi nei confronti della società, spesso riportandoli in chiave ironica, ma sempre con un inquietante fondo di verità.
NHK tuttavia porta agli estremi la visione di questo modo di vivere e delle sue conseguenze, e sebbene le disavventure dei vari protagonisti portano senza dubbio a diverse situazioni ilari, l’attenzione di fondo ai problemi di questo tipo di persone e la preoccupazione stessa dell’autore nei loro confronti è palese.
Il protagoniste della storia è Tatsuhiro Sato, di ventidue anni.
Abbandonata l’università dopo appena il primo anno, si è ritrovato presto nella condizione dell’Hikikomori, ovvero del giovane disadattato sociale che passa la stragrande maggioranza del proprio tempo in casa, senza studiare o lavorare e senza avere pressoché alcun contatto col mondo esterno.
Stimolato dalla misteriosa Misaki – che lo prende come soggetto di studio – a reagire, Tatsuhiro reincontra due vecchi compagni del liceo, Kaoru Yamazaki (un lolitomane all’ultimo stadio fissato coi bishojo game), e Hitomi Kashiwa, una maniaca depressiva fanatica delle teorie del complotto (una di queste, assolutamente maniacale, dà infatti il titolo al manga).”
Questa espressione di rifugio della nuova generazione giapponese, al pari delle più nostrane, in quanto ad incidenza, anoressia e bulimie è un fenomeno piuttosto complesso e non la si può liquidare nel ritiro sociale di adolescenti difficili, esattamente come non si può ridurre la causa delle sindromi riferibili a disturbi del comportamento alimentare al solo rapporto disequilibrato col cibo. In entrambe le situazioni si passa attraverso un blocco comunicativo col mondo, in una fase di vita, quale è la adolescenza, nel corso della quale l’individuo tenta di identificarsi ed emanciparsi, percepisce una realtà diversa da quella che aveva maturato nell’immaginario infantile e si percepisce impotente dinanzi al cambiamento. Sublima ed evita divenendo dipendente da tali comportamenti. Forse dinamiche famigliari opprimenti, iperprotettive e scarsamente educative contribuiscono all’insorgenza di tali sindromi; forse il contesto sociale omologativo e manipolativo rinforzano; forse l’appiattimento della comunicazione interpersonale stigmatizza l’espressione.
La comunicazione rappresenta un aspetto essenziale della nostra esistenza, del nostro divenire, ma svolgendosi in situazione di reciprocità, oltre a trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti sino ad arrivare a definire la natura della loro relazione. Si comunica anche quando si tace, ci si nasconde, si evita e questo porta al vissuto di impotenza di chi tenta la negazione a difesa ad ogni costo.
È fatto indiscusso ed incontrovertibile l’oggettiva difficoltà della transizione dal microcosmo famigliare al macrocosmo rappresentato dal mondo esterno, l’acquisizione della consapevolezza di essere un’unità parte di un gruppo dinamico che richiede responsabilizzazione e capacità di scegliere autonomamente sostituendosi all’onnipotenza-dipendenza infantile. Una strettoia vitale carica di solitudine, di separazioni che, se oppressa, può spingere forzosamente verso l’imbuto della negazione, sia essa sociale o relativa ai bisogni primari.
All’Istituto «Minotauro» di Milano, dove ha preso corpo un Centro per la ricerca, la prevenzione e il trattamento dei disturbi del comportamento in adolescenza
Adolescenza & Giustizia (http://aeg.minotauro.it/?page_id=4 ; video: http://aeg.minotauro.it/?page_id=7 ) presso il quale prestano la loro opera Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, pare si stiano rivolgendo decine di genitori preoccupati per l’antisocialità espressa dai loro ragazzi. «Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni ’60-’70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri “autoreclusi” condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All’origine c’è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall’incapacità di gestire relazioni di gruppo». Il risultato non cambia in quanto si chiudono in una stanza, sia essa reale che psichica, sostituiscono la vita reale con quella virtuale negando, così, il bisogno di relazionarsi agli altri. La realtà virtuale che agisce da ancora di salvezza, come sostiene Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, rappresenterebbe una delle conseguenze e non la causa, sovrapponibile alla negazione del corpo nelle anoressie (http://www.dipendenze.com/nuovedipendenze/internet.asp )
- vedi: University of Hawai’i Manoa “Hikikomori as a Gendered Issue Analysis on the discourse of acute social withdrawal in contemporary Japan.” A research paper submitted to satisfy the requirements for History course number 425- Final Revision by Michael J. Dziesinski Honolulu, Hawaii, Fall Semester 2004;http://towakudai.blogs.com/Hikikomori_as_Gendered_Issue.pdf e “Discourses of Media and Scholars; Multicausal Explanations of the Phenomenon” by Dorota Krysinska MA,University of Warsaw, 2002 Submitted to the Graduate Faculty of Arts and Sciences in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Arts in East Asian Studies University of Pittsburgh 2006; http://etd.library.pitt.edu/ETD/available/etd-10272006-180946/unrestricted/Krysinska_Dorota_October_2006.pdf
- tratto dal documentario “hikikomori” realizzato da Francesco Jodice e Kal Karman , http://www.kalkarman.com/documentary/hikikomori.html
- New Addictions – Internet Addiction Disorder; http://www.siipac.it/newaddictions/internetaddiction.htm ; Internet Addictive Disorder (IAD)
Diagnostic Criteria, Ivan Goldberg ; http://www.psycom.net/iadcriteria.html
Laureata in medicina e chirurgia si è da sempre occupata di disturbi del comportamento alimentare, prima quale esponente di un gruppo di ricerca universitario facente capo alla Clinica psichiatrica Universitaria P.Ottonello di Bologna e alla Div. di Endocrinologia dell'Osp. Maggiore -Pizzardi, a seguire ha fondato un'associazione medica (Assoc. Medica N.A.Di.R. www.mediconadir.it ) che ha voluto proseguire il lavoro di ricerca clinica inglobando i Dist. del comportamento alimentare nei Dist. di Relazione. Il lavoro di ricerca l'ha portata a proporre, sempre lavorando in equipe, un programma di prevenzione e cura attraverso un'azione di empowerment clinico spesso associato, in virtù dell'esperienza ventennale maturata in ambito multidisciplinare, a psicoterapia psicodinamica e ad interventi specialistici mirati.
Ha affrontato alcune missioni socio-sanitarie in Africa con MedicoN.A.Di.R., previo supporto tecnico acquisito c/o il Centro di Malattie Tropicali Don Calabria di Negrar (Vr). Tali missioni hanno contemplato anche la presenza di Pazienti in trattamento ed adeguatamente preparati dal punto di vista psico-fisico.
Il programma clinico svolto in associazione l'ha indotta ad ampliare la sfera cognitiva medica avvicinandola all'approccio informativo quale supporto indispensabile. Dirige la rivista Mediconadir dal 2004, è iscritta all'Elenco speciale dei Giornalisti dell'OdG dell'Emilia Romagna e collabora con Arcoiris Tv dal 2005 (videointerviste, testi a supporto di documenti informativi, introduzione di Pazienti in trattamento nel gruppo redazione che oggi fa capo all'Assoc. Cult. NADiRinforma, redazione di Bologna di Arcoiris Tv).