L’anniversario del genocidio di Srebrenica – dall’11 al 18 luglio 1995, nell’enclave protetta di Srebrenica, vengono sterminati da 8 a 10.000 maschi inermi bosniaci-musulmani dai 16 ai 60 anni dalle forze armate serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko (guerriero) Mladic – prende quest’anno movenze di particolare drammaticità. Mladic, il responsabile militare di questa e altre stragi, è stato arrestato – dopo Radovan Karadzic, il responsabile politico – e viene adesso giudicato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Il soldato, in pochi giorni, ha vestito i panni dell’anziano reduce malandato e dell’arrogante guerriero, del padre perseguitato dalla memoria della figlia suicida e del miles gloriosus che dileggia in modo grossolano i giudici del Tribunale per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia. Gli piace cambiare le parti in commedia. Accarezzava i bambini terrorizzati nell’enclave di Srebrenica violata mentre preparava lo sterminio dei padri, rassicurava Avdo Palic responsabile dell’enclave di Zepa mentre tonificava i muscoli con i pesi per ammazzarlo con le proprie mani. Mladic è “il mostro con le spalline” delle poesie dall’assedio di Abdulah Sidran che incita gli artiglieri ad aumentare il ritmo dei colpi sulla popolazione civile di Sarajevo sino a “torcergli la ragione”, farli uscire di senno. E’ il protagonista insieme a Karadzic della “quota bosniaca” del progetto espansivo monoetnico detto della Grande Serbia.
I coltelli e i bastoni dei nazionalisti serbi agli ordini di Mladic sgozzano e uccidono diecimila uomini nella valle di Srebrenica. Il generale francese Bernard Janvier comandante delle forze internazionali Onu (Unprofor) in Bosnia Erzegovina blocca gli attacchi aerei contro i serbi che assediano l’enclave protetta e stanno entrando. Le forze olandesi dell’Onu, schierate in difesa dell’enclave, non sparano un colpo, alzano bandiera bianca e i loro comandanti – Karreman e Franken – collaborano con i serbi. Ecco i facitori manuali e i responsabili sul campo dell’Olocausto musulmano. Tra i tanti testi che raccontano Srebrenica, tra i più efficaci Cartolina dalla fossa di Emir Suljagic (Beit edizioni, Trieste) [il titolo evoca il poemetto La fossa, scritto nella Resistenza jugoslava]. Suljagic aggancia ha una prosa diretta, antiretorica: “…quando ancora non si era alzata la nebbia sopra l’angusta e profonda conca di Srebrenica, centinaia di uomini si arrampicavano sul ripido pendio sopra la città e tutti – vestiti di cenci luridi, maleodoranti di sudore stantio -portavano un’accetta e una corda. La meta era un bosco sino al quale ci si doveva arrampiacere per far legna, aiutandosi con mani e piedi…tagliavano il primo albero che trovavano, lo legavano con la corda e lo trascinavano per centinaia di metri…”. Srebrenica, Gorazde o Sarajevo, le comunità assediate da anni, non hanno cibo, né acqua, né combustibile. Nel bisogno e nell’indigenza si formano bande, la sopravvivenza negli edifici assediati in mano agli speculatori e ai borsaneristi, il ghetto è gestito da gerarchie di profittatori: “…Nella estate del 1994 nell’enclave scoppiò – scrive Suljagic – una protesta davanti al Comune; la gente accusava facendone i nomi il Sindaco e i suoi collaboratori di furto di aiuti alimentari a danno della popolazione. Quella stessa notte, il capo della protesta fu uccisio. La città ammutolì. Le cose continuarono come prima: parte degli aiuti veniva distribuita alla popolazione, l’altra, di qualità superiore, finiva al mercato o nei magazzini privati dei funzionari cittadini che nel deposito centrale si sceglievano cosa e quanto era di loro interesse. C’era di tutto, per gli ufficiali, gli impiegati comunali, le loro mogli e le loro amanti: dalle nuove scarpe sportive ai jeans Levi’s…”. Il leggendario comandante della difesa della enclave è Naser Oric. Suljagic spende righe di ammirazione per questo comandante carismatico, ma anche: “Alcuni anni dopo la guerra, nel 1998, ottenni per breve tempo, giusto per leggerlo, un rapporto del servizio di controinformazione del 2° korpus dell’Esercito della Bosnia-Erzegovina, nel quale si descriveva – nei minimi dettagli – come proprio Oric fosse l’organizzatore del mercato nero. Il rapporto conteneva alcune pagine con i nomi dei rivenditori, il modo e i luoghi del commercio con i serbi, gli articoli più richiesti…”. Naser Oric – è storicamente noto – abbandona con i suoi ufficiali l’enclave nelle cadenze finali dell’attacco dei serbi, lasciando senza guida la difesa. Suljagic, in un andamento narrativo un po’ confuso [gli capita nei momenti topici], così ne scrive: “Hai sentito che cosa è successo?” “Che cosa?” “Naser ha lasciato la città!” mi disse con un sorriso acido. Sentivo la paura che sgorgava da me, per poco non caddi dallo sbigottimento: “Quando?” “Stamattina: lui, Ramiz e una decina di loro” “Come?” “In elicottero” “E allora, è la fine?” chiesi più a me che a lui.
La narrazione della caduta dell’enclave e del genocidio dovrebbero ricominciare da qui. Suljagic vi rinuncia e il suo libro che ha pagine così perentorie comincia a balbettare. In ogni caso, mentre cadono Zepa e Srebrenica e Naser Oric abbandona il comando su ordine del governo di Sarajevo [“per sette volte ho rifiutato di salire su questo elicottero!” dirà, biblicamente, salendovi] e iniziano le stragi, nella capitale Sarajevo tutti hanno chiaro che Alija – il presidente – ha accettato la divisione etnica della Bosnia Erzegovina. “Noi diamo le enclaves na podrinija (lungo la Drina) ai serbi e loro sgomberano i quartieri occupati di Sarajevo!” si approva – tra stenti e paura, la via d’uscita – nei piccoli gruppi di discussione che si raccolgono nelle strade e nelle piazze della città nonostante i bombardamenti con granate dell’ultima stagione di guerra – l’estate 1995. Il generale bosniaco Halilovic ha per anni accusato il governo di non avere voluto difendere con i corpi di armata di stanza a Tuzla, rimasti inerti, le enclaves. Del resto Izetbegovic non ha mai avuto un’idea diversa da quella di una piccola Bosnia monoetnica. La sua visione politica limitata, angusta, non poteva rovesciare il tavolo delle cancellerie internazionali che stavano preparando Dayton – se mai questo rovesciamento ha pensato di farlo il pio Alija [pio, lui, in preghiera con la djellaba nella moschea e anche in Parlamento / meno pio il figlio Bakir, architetto, gestore di grandissima fetta (2.000 miliardi delle vecchie lire) degli aiuti internazionali per la ricostruzione di Sarajevo]. Nel baratto enclaves-quartieri di Sarajevo, il pio Alija aveva messo in conto il genocidio dei bosniaci podriniesi? Rimane la domanda capitale. Eventualmente questa la colpa senza possibilità di perdono.
Abdulah Sidran
Abdulah Sidran ha scritto il lungo disperato poema Le lacrime delle madri di Srebrenica (ADV edizioni, Lugano) sul lutto irredimibile del genocidio bosniaco. Sidran alla domanda: “Il presidente Izetbegovic, accettò, nell’estate 1995, la divisione per zone “etnicamente pulite” e lo scambio enclaves-quartieri di Sarajevo. Nessuno difese l’enclave di Srebenica: non l’Onu, non l’esercito bosniaco, non il comandante militare dell’enclave Nasser Oric, ritirato, con i suoi ufficiali, dal governo di Sarajevo prima dell’11 luglio…E’ così?” replica “A queste domande dovranno rispondere gli storici. Un voto positivo dalla storia non l’otterrà nessuno di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno fatto calcoli con l’idea degli spostamenti etnici e in generale di una “territorializzazione etnica”. Esistono indizi secondo i quali anche la parte bosniaca è stata implicata in combinazioni di sorta. Per questo molti patrioti che hanno combattuto con onore oggi si sentono schifati. Uno ha detto: come se avessi giocato una partita, con tutte le mie forze e correttamente, per venire a sapere alla fine che la partita era stata venduta”.
Il paese che aveva trovato per cinquanta anni, dalla Resistenza agli anni Novanta, gli equilibri di una vita comune tra genti di tradizioni e culture diverse e religioni analoghe, viene diviso nel sangue. La barbara, primitiva visione etnopolitica delle parti – e prima di tutto e senza alcun alibi del nazionalismo serbo – è responsabile del bagno di sangue che sigilla nelle fosse comuni la parabola della enclave di Srebrenica. Visione monoetnica e morte collettiva dell’altro. Mentre sale sulle spalle della guerra etnica, la spartizione privata internazionale e tra le famiglie di potere locali, della Jugoslavia, l’enorme paese federato a proprietà indivisa e collettiva.
Piero Del Giudice, giornalista e scrittore, inviato a Sarajevo durante l'assedio della città, è autore di articoli, libri, saggi, documentari televisivi sulla ex-Jugoslavia ("Sarajevo!" edizioni del Gottardo, Lugano; "Romanzo balcanico", Aliberti editore, Roma). Del Giudice lo fa a partire da "Sarajevo mon amour", il libro-intervista di Jovan Divjak edito di recente in italiano (Infinito edizioni, Roma).