La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Società » Con questa faccia da straniero »

Ho voglia di andare al mare qui attorno per una vacanza da bianco. Ho voglia di tornare in Africa, nipotini che crescono e la terra rossa della mia nostalgia. Alla fine non so mai dove andare...

Se torno a casa i bambini mi guardano: ma quello chi è?

16-08-2010

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Tutte le volte che mi chiedono dove vado in vacanza, rispondo sempre non lo so. Alla fine non so mai dove andare. Dove potere andare. La prima idea è sempre casa. Vicino alla mamma. Il papa. La famiglia. I fratelli. Le sorelle. I nipotini che crescono. La terra rossa. Gli odori. Il tempo fermo per un mese. Mia madre mi ha detto quest’anno di fare delle vacanze da bianco. Mare. Mi piacerebbe. Mi piacerebbe andare al mare. O in montagna. O anche andare in Grecia con mio “fratello” Luca. Fare festa. Riuscire a fare il viaggio che sogno in questo momento: andare in Portogallo.

L’anno scorso non ci sono potuto andare, malgrado il biglietto regalato: avevo il permesso di soggiorno scaduto. Viaggiare. Dimenticare il tempo che passa. Dimenticare tout court. Poi vedo le mie tasche. Guardo la busta paga. Faccio i calcoli. E penso, ma no, non posso. Devo pensare al viaggio in Africa. A fine anno. Devo pensare alle cose da portare. I regali. I soldi per poter vivere là. I soldi per quelli di là. Devo pensare a mio fratello che sta finendo l’università che mi chiede soldi per finire la tesi. Mio ultimo nipotino che non mi conosce ma che al telefono mi chiede come regalo una bicicletta. Quattro anni fa sono tornatè a Ouaga e c’era il nipotino, che aveva appena tre anni.

“Ma chi è questo, mamma?”.
“Ma è zio Cleo”.
“Zio chi, quello del telefono?”.

Sì, quello del telefono. Quello che sorride sentendo solo la tua voce. Quello che ha le tue foto sul comodino. Quello che ha mandato i soldi per la tua prima bicicletta. Quello che ha scelto il tuo nome. Zio Cleo. Si è voluto del tempo per potere diventare zio Cleo. Adesso, ogni volta che chiamo, riconosce la mia voce e si cimenta nelle sue prime conversazioni. Racconta le sue cose. Mi chiede di sgridare la mamma perché ha sgridato lui. E ho l’impressione di potere partecipare alla loro vita. La mia vita lontana. Con il telefono.

Mio amico Madi mi raccontava che la prima volta che è tornato a casa dopo tre anni di immigrazione (clandestinità poi regolarizzazione). Suo figlio aveva appena quattro anni. E la notte vedendo questo straniero che voleva dormire nella camera della mamma si è messo a piangere. No, questo straniero non può dormire qui. Questo è la nostra casa. Non voglio.

“Ma è papa”.
“No, non è papa, mio padre è in Italia”.

Riuscire a spiegare a questo bambino che quell’uomo che vuole dormire nella camera di sua madre era suo padre è stato la cosa più difficile della loro vita. Quella notte ha dormito sul divano.

Queste vacanze li faccio sulla mia bici. In giro in questa città. Sempre più mia. A bere qualche birra ogni tanto con i fratelli sul prato della piazza della pilota. Leggerò un po’ di più, con tutto quel tempo che ho. Sistemerò casa. Scriverò un po’. Il tempo passerà. Avrò fatto anch’io le mie vacanze. Poi forse anche quest’anno, verso dicembre, andrò in Burkina, vicino la mamma. A bere il latte.

Cleophas Adrien DiomaCleophas Adrien Dioma è nato a Ouagadougou (Burkina Faso) nel 1972. Vive a Parma. Poeta, fotografo, video documentarista è direttore artistico del Festival Ottobre Africano (www.ottobreafricano.org - cleobibisab@yahoo.com - info@ottobreafricano.org). Collabora con “Internazionale” e “Solidarietà Internazionale”.
 

Commenti

  1. Andrea Casale

    Caro Cleo, questo è tra tutti i tuoi articoli quello sicuramente più intimista e toccante che tu abbia mai scritto. Credo che ci sia poco d’aggiungere: la riflessione che mi viene da fare è che molta gente vede l’immigrazione come qualcosa di brutto che noi italiani siamo costretti a “subire”, senza ricordare che l’immigrazione riguarda prima di tutto chi la fa, lasciando alle spalle la famiglia, gli amici, tutto quello con cui ogni uomo cresce, si confronta e grazie al quale diventa quello che è. Spero che almeno tuo nipote si stia divertendo sulla bici. Magari un giorno vedremo anche lui scorrazzare per Parma. Con te o al tuo posto

  2. Doctor Snake

    Chi parte come immigrato si sente dissociato tra diversi luoghi, tra mille persone che lascia e che incontrerà, senza bene appartenere a nessun luogo e a nessuna persona.
    Ma noi immigrati siamo come le formiche-manioca che camminano, camminano e tracciano percorsi invisibili tra i fili d’erba e le radici degli alberi e con i loro spostamenti incessanti, instancabili, sono come una specie di aratro: muovono la terra e la seminano.
    Anche noi immigrati, con i nostri viaggi interminabili, con le nostre orme lasciate dietro di noi nel deserto per raggiungere un barcone scalcinato che ci porti fin qui, con le nostre valigie piene di speranza e di regali, stiamo seminando la terra di un frutto nuovo, perché nasca in qualche luogo, con qualcuno che incontreremo, una generazione nuova, libera………fatta di persone libere di essere quello che sono, libere di partire e viaggiare dove e quando vogliono. Senza muri, senza mari che diventano delle tombe, senza passaporti né permessi di soggiorno.
    E allora l’immigrazione non è una cosa brutta.
    Dal nostro sacrificio e dalle nostre vite in bilico sta germogliando una pianta nuova, una coscienza nuova, un paesaggio diverso che vedo ogni giorno nella mia città, dove persone diverse si stanno incontrando e si stanno conoscendo. Siamo qui. Ci siamo anche noi.
    Noi immigrati stiamo seminando la terra di un seme preziosissimo, la conoscenza dell’Altro, di mondi diversi, dei nostri mondi dimenticati e sconosciuti, in questa Europa così all’avanguardia e così miope, siamo i rappresentanti di mondi così grandi, così gloriosi per storia e ricchezza culturale. Noi portiamo in dono il nostro modo di vivere e pensare, il nostro modo di vestire, il profumo del nostro cibo nelle notti di Ramandan, portiamo il nostro modo di fare festa, la nostra musica.
    Stiamo seminando avvenire in un mondo decadente e pieno di recinti, di cancelli, di muri. Tra vent’anni non ci sarà più nazione o carta geografica o carta d’identità che tenga, quando sempre più persone dalla pelle non bianca parleranno il dialetto napoletano o parmigiano o scriveranno libri e poesie nella lingua di Dante. Questo mondo contaminato dai colori dell’arcobaleno lo stiamo preparando noi, gente immigrata, e i nostri giri, il nostro peregrinare non è invano.

  3. silvio cinque

    Gli anni dell’adolescenza li ho vissuti con un padre lontano, emigrato, tornato in Libia dalla quale eravamo partiti nel ’61. A 49 anni, continuare in Italia la piccola impresa edile che in Libia aveva ereditato da suo padre, in Italia era impossibile. Il boom edilizio non era cosa possibile per un uomo lontano dalle faccende e dagli intrighi delle politiche italiane. Papà, uomo del primo ‘900, credeva nella parola data e se, sulla parola, anticipava i soldi per avere una fornitura di materiali, aspettava la fornitura che invece non sarebbe stata onorata. Nel giro di pochissimi mesi fallì e rimase disoccupato e solo grazie alla profonda conoscenza del dialetto libico, conoscenza che risaliva a quando era andato il Libia nel 1928 a 16 anni da suo padre, ottenne un lavoro al MAE come contrattista locale, interprete ed addetto all’archivio. Tornava a Natale, scriveva lettere ricche di amore e nostalgia e premurose verso di noi che crescevamo senza di lui, rabbiosi e difficili negli anni del ’68. Quando tornava mia madre chiudeva la porta, sempre aperta, della camera da letto e l’indomani ci salutava con un allegro:- non abbiamo fatto alla guerra- ricordando uno slogan di quegli anni. Gli ho sempre rimproverato la sua lontananza e il suo colonialismo, anche se all’italiana, che però ha dato alla sua famiglia una certa dignità e benessere. L’emigrato è questa lontananza che diventa per lui nostalgia ed amore infinito per la sua piccola e vera patria che è la sua famiglia e per la quale è partito; ma è anche lontananza per chi rimane ad aspettare e sperare che torni, finché è in tempo, ad essere padre e marito. Finché è in tempo e se può, altrimenti è purtroppo vero: partire è diventare un’altra persona. Grazie Cleo.

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