Sì, sabato sera ho visto la partita. Non me ne vergogno. Una o due volte l’anno guardo una partita di calcio che promette bel gioco. Per il resto, ho sempre cose più interessanti da fare. Poi, non so usare bene la tv, diventata più difficile col decoder. Ma non mi intendo affatto di tecniche, non conosco alcun nome di calciatori, non tifo per nessuna squadra, semmai contro la favorita. Sono rimasto ai termini tecnici di quando giocavo in pineta (due pini servivano da pali), prima di fare i compiti, durante il ginnasio, oltre 50 anni fa: portiere, terzini, mediani, centravanti, ali e mezze ali. Io facevo il centravanti, non male. Mai visti gli scarpini, si giocava con quel che avevi ai piedi, e senza arbitro, ci si regolava da soli, non c’erano scontri, solo qualche discussione. Il pallone di cuoio era il massimo dell’evoluzione. Ma si usava l’inglese (nel calcio) anche allora: offse (off-side), goal, e qualcos’altro.
Ora lo guardo in tv, da solo. Mi fa pena l’intruppamento viscerale di enormi masse umane, trasformate in mandrie compattamente deliranti, ognuno un atomo in un amalgama, fuori di sé. La chiamano festa. Domenica – lo dice il GR1 – squadre di spazzini ripuliscono una piazza Duomo ridotta ad una discarica. Sempre a Milano, sabato notte, sera 130 interventi medici per svenuti, intossicati da bombolette.
Poi, ho ribrezzo di quei gestacci da trionfo bellico dei calciatori dopo un goal, come se avessero schiacciato un mostro sotto i piedi, tagliato la testa al nemico (come abbiamo fatto noi italiani nelle colonie: Libia, Eritrea, ecc. Ci sono le foto, perché allora non c’era la tv). Puntano al cielo e attorno a sé pugni, dita, occhiacci, bocche inferocite, e fanno penosa mostra di subumanità. Ah, entrando in campo, molti toccano il terreno e si fanno il segno di croce! Ma cos’hanno in testa? Non dico la risposta che penso.
Ovviamente, sanno usare piedi, agilità, velocità, astuzie, tecniche e strategie sul terreno. Si calciano regolarmente l’un l’altro, si fanno lo sgambetto, e ciò pare rimediabile con un calcio di punizione, da fermo. Per questo sono pagati, dal chi ha interesse a rimbambire le suddette folle impersonali – ma ogni poveraccio vi contribuisce generosamente, fregandosi da solo – centinaia di milioni, credo. A proposito, nelle interviste all’entrata nello stadio, alcuni devoti del gioco (altrui), dichiarano senza vergogna, anzi tutti contenti, di avere pagato il biglietto ai bagarini 400 e fino a 750 auro, col viaggio aereo fino a 1600 euro. Scemi! Io ho speso solo due ore di tempo. Durante la cerimonia successiva, della premiazione, mi sono addormentato. Dicevo dei nomi dei campioni: sapevo Ibrahimovic, che non gioca più, perché ne era entusiasta l’autista del viaggio in Grecia, due anni fa. I gol di Milito mi sono piaciuti. Così ho imparato il suo nome: è un grandissimo, dicono i cronisti, e io non l’ho mai sentito nominare prima di stasera. Ho imparato che è argentino. Di Maradona, invece, mi ricordo.
A Torino un uomo di 63 anni è morto accoltellato, fuori dal bar dove guardava la partita. L’omicida, anch’egli sessantenne, è un tifoso interista che non aveva gradito questa frase: “Italiani nell’Inter non ce n’è, mi pare”… Da sabato sera so tante cose di più sul calcio. Credo che in effetti chiesa voglia dire una quantità di forme, realtà, momenti, anche assai diversi. Ci sono molte stanze nella casa del Padre. C’è chi non mette mai il naso fuori. C’è chi entra un momento quando piove troppo, o ci passa solo per un po’ di riposo la notte. Chi per rifocillarsi, o parlare con qualche amico. Chi sporca e chi pulisce la casa. Chi ha la mania delle tendine alle finestre e delle trine sui tavolini, e chi tira via sull’essenziale. L’importante è non farne un castello di armati, o un rifugio di spaventati. Può essere la casa dove si nasce, poi si vaga per il mondo, e forse si torna per morire. Ben custodita o malamente strumentalizzata, c’è lì la memoria di Gesù, più che altrove. In fondo, solo per questo si passa in questa casa, se si è un pochino onesti. Se si è disnesti, si cerca il suo appoggio in politica e negli affari. Grande pluralismo, ci vorrebbe, senza accaparramenti né gradi gerarchici. E libere discussioni familiari, e dispiaceri, e qualche gioia. E poco o niente “dentro o fuori”, ma una casa senza mura, “senza confini” (come diceva sorella Maria di Campello), col via vai tipico della vita reale. Questo è barcamenarsi? Vedete voi. E chi ha la fissa della squadra militaresca, si metta in pace e lasci in pace noi, se ci riesce. E noi possiamo essere in pace vigile, e libera parola, senza (troppo) arrabbiarci.
Una persona, non io, che ieri ha visitato la Sindone, mi racconta che due signore vicine a lei, già in coda, poi fino proprio davanti alla Sindone, parlavano con partecipazione di Medjugorie.
Enrico Peyretti, intellettuale impegnato nel movimento per la nonviolenza e la Pace. Ricercatore nel Centro Studi “Domenico Sereno Regis” di Torino, sede dell’Italian Peace Research Institute. È membro del Centro Interatenei Studi per la Pace. Fra i suoi libri: “Per perdere la guerra” (Beppe Grande, Torino); “Dov’è la vittoria?” (Il Segno, Gabrielli); “Il diritto di non uccidere, schegge di speranza” (Il Margine, Trento)