Il premio Nobel per la pace non è infallibile. Anzi molte volte ha preso delle autentiche cantonate (come la scelta di Kissinger, di Begin…) ma questa volta, finendo inopinatamente nella casa bianca di Obama, non ha sbagliato. E invece è nato un putiferio: perché proprio Obama, che finora ha fatto solo grandi discorsi senza realizzare niente? Perché Obama, che non si è ancora ritirato dall’Iraq, che non ha persuaso Israele, non ha messo a posto l’Iran, non sa che pesci pigliare in Afghanistan? Perché Obama, che ancora non è riuscito a chiudere Guantanamo? Perché Obama che ha spaventato le assicurazioni senza ancora riuscire a dare l’assistenza medica agli americani poveri? Perché Obama, che del premio non ha alcun bisogno, mentre molto ne avrebbero bisogno un dissidente cinese in lotta per la democrazia, o un militante per i diritti umani braccato dal potere?
È la prima volta, che io sappia, che si critica il Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare ma ancora non ha fatto; e si critica non perché il premio non se lo meriti, ma perché non gli serve; e perché il premiato non sta all’opposizione, ma sta al potere.
In realtà le critiche al Nobel per Obama sembrano ancora in cerca di motivazioni, ma una cosa la dicono chiaramente già subito: che dopo il coro di osanna al “primo presidente nero degli Stati Uniti” (sventolato come prova che essi sono una vera democrazia, che sono un modello di convivenza razziale, che sono un faro per tutti i popoli e che “non possiamo non dirci americani”), a molti Obama è caduto dal cuore, e proprio perché questi ammiratori delusi sono attaccati agli Stati Uniti di ieri, così muscolosi e “identitari” in nome di tutto l’Occidente, e temono gli Stati Uniti che vorrebbe fare Obama oggi: pacifici, internazionalisti e interreligiosi.
Intanto molte critiche sono infondate. Riguardo all’Iraq quello che conta non è l’immediatezza del ritiro delle truppe d’invasione, ma il fatto che gli Stati Uniti rinuncino, come ha annunciato Obama, a mantenervi basi militari permanenti. E ben si sa che col pretesto di Saddam Hussein, l’avanzamento dell’insediamento militare americano nel mondo arabo e verso l’Estremo Oriente, è stata la vera ragione (più che il petrolio) della seconda guerra contro l’Iraq. Per Guantanamo il Senato americano ha approvato in questi giorni una legge che stabilendo di giudicare negli Stati Uniti i prigionieri che non possono essere rilasciati, permetterà la chiusura di quel lager. Quanto alla lotta per il servizio sanitario nazionale, essa procede lentamente affrontando l’offensiva ideologica scatenata contro il presidente, accusato di essere “socialista”, ma non si è fermata. Con Israele effettivamente va male: ma lì sappiamo che c’è ben poco da fare senza un mutamento profondo di quello Stato, che gode di un grande potere sull’America, e davvero ha in mano il destino di Obama.
Ora è proprio perché il presidente americano vuol rendere pacifica, internazionalista e interreligiosa non una piccola ONLUS, ma la maggiore potenza militare ed economica del mondo, che merita il Nobel. Può darsi che non ci riuscirà, perché moltissimi nemici ed alleati si metteranno di traverso (altrimenti non sarebbero stati così corrivi e funzionali all’America di Bush); ma l’averlo deciso, aver vinto su questa linea una campagna elettorale, averlo proclamato nei punti topici del mondo, dal Cairo ad Accra all’Europa all’ONU, e aver avviato delle politiche che tendono a realizzare l’obiettivo di un mondo unito, pluralistico, senza armi nucleari e non violento, è il più alto servizio che si potesse fare alla pace; e meno male che quelli del Nobel se ne sono accorti e hanno voluto premiare non un uomo ma una politica, la cui finalità è tutta nel futuro, per attuare la quale ci vorrà più di una generazione e che perciò ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, ivi compreso il Nobel per la pace.
Quando Giovanni XXIII, un mese prima di morire, ricevette il premio Balzan per la pace, aveva appena finito di scrivere l’enciclica “Pacem in terris” e aveva aperto il Concilio; la “Pacem in terris” era il manifesto di un mondo nuovo, e il Concilio era l’anticipazione di un’umanità ricomposta in unità, riconciliata con se stessa e con Dio. Ancora oggi quel programma giovanneo è ben lungi dall’essere attuato, anzi si è andati perfino indietro rispetto a quel mondo, a quell’umanità e a quella Chiesa che i segni dei tempi di allora facevano intravedere come possibili: ma nessuno potrebbe dire per questo che quel premio per la pace fosse sbagliato o che papa Giovanni non se lo fosse meritato.
Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’amore finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”. Promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.