Chissà da che parte starebbero oggi i probi pionieri di Rochdale – cittadina nei pressi di Manchester – che, poco prima del Natale 1844, fondarono la Rochdale Pioneers Society, prima cooperativa al mondo, nata con una stretta di mano davanti ad un sacco di farina. Con la Filcams guidata da Franco Martini o con i dirigenti di Coop Italia (presidente Vincenzo Tassinari)? O con nessuno dei due? Forse, semplicemente, sarebbero tristi nel vedere che, proprio in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, il mondo della cooperazione italiana – promossa e tutelata, vale la pena ricordarlo, dal primo comma dell’articolo 45 della Costituzione – sia attraversato da contrasti e divisioni. E chissà cosa ne pensa Luciana Littizzetto, che da un po’ di tempo è protagonista degli spot televisivi della Coop. Sabato 9 luglio, infatti, su tutto il territorio nazionale i dipendenti delle cooperative di consumo italiane hanno scioperato, costringendo ad una generale serrata (totale o parziale) i supermercati nel giorno della settimana in cui gli incassi di super e ipermercati sono solitamente più alti. Il 7 e 8 luglio si era svolto l’incontro per il rinnovo del contratto nazionale della distribuzione cooperativa alla presenza dei segretari generali di Filcams-CGIL, Fisascat-CISL e Uiltucs-UIL. L’origine della divisione risale però al 31 marzo quando Cisl e Uil – proprio come nel caso Fiat – rifiutarono di sottoporre a referendum l’accordo separato per il Ccln della Confcommercio, sottoscrivendo il contratto definitivo e siglando, di fatto, una rottura insanabile.
Il segretario generale della Filcams, Franco Martini, ha ribadito in questi giorni che la condizione necessaria per fare l’accordo è eliminare dal tavolo di trattativa quattro punti “irricevibili”: affrontare il problema dell’assenteismo attraverso il non pagamento della malattia; creare un sistema di deroghe generalizzate al contratto nazionale; depotenziare il secondo livello di contrattazione riducendo il ruolo delle RSA/RSU; recepire le necessità di risparmio sul costo del lavoro attraverso doppi regimi che scaricano la crisi sui nuovi assunti, prevalentemente giovani. La dirigenza Coop avrebbe detto “prendere o lasciare”, e così è scattato lo sciopero. Un successo senza precedenti per questa categoria, secondo il sindacato: “Adesione media superiore al 80%. A Reggio Emilia, l’Ipercoop Ariosto ha chiuso alle ore 14.30: non è servito il tentativo del gruppo dirigente dell’ipermercato, che ha cercato di vanificare la forte adesione allo sciopero sostituendo le lavoratrici e i lavoratori”.
Opposta la valutazione dei pochi dirigenti della cooperazione che finora hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche in proposito. Tra questi il neo presidente di Coop Adriatica, Adriano Turrini (cooperatore bolognese, già presidente di Coop Costruzioni), che giudica infondata la versione della Filcams: “Mentre a Roma era in corso la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro della distribuzione cooperativa, la Filcams-Cgil dichiarava lo stato di mobilitazione e 8 ore di sciopero dopo aver portato, solo il giorno prima, alcune controproposte alla piattaforma delle Coop. Si tratta di un atteggiamento grave e incomprensibile, nei confronti di imprese che in questi anni hanno concretamente perseguito una politica di sviluppo e consolidamento dell’occupazione: la sola Coop Adriatica, negli ultimi 3 anni, ha realizzato 1000 assunzioni a tempo indeterminato. La proposta avanzata dalle Coop mantiene tratti distintivi e resta migliore del contratto del commercio privato. E poi lo sciopero è andato male: si trattava di una vertenza nazionale e in tutta Italia ci sono stati meno di 50 negozi chiusi”.
Forse è proprio questo, però, il punto dolente che suscita nervosismo ai piani alti delle centrali cooperative: i dirigenti sanno bene che la distribuzione delle Coop sul territorio nazionale non è uniforme. Ed è proprio nei territori dove la cooperazione ha radici antiche che lo sciopero ha avuto successo. In Toscana nella provincia di Lucca 3 grandi punti vendita sono rimasti chiusi per l’intera giornata e 5 chiusi nel pomeriggio. Il Lombardia tutti i supermercati e gli ipermercati sono rimasti chiusi mezza giornata. Disagi si sono verificati anche in Puglia: a Foggia sono state bloccate le casse e le procedure dell’inventario. In Emilia-Romagna la maggior parte dei supermercati ha chiuso mezza giornata; solo in provincia di Bologna ben 12 punti vendita sono rimasti completamente chiusi. Non era mai successo. Tra questi lo storico negozio della “Barca”, periferia ovest di Bologna, ha chiuso tutto il giorno dove i soci più anziani considerano la Coop come la loro seconda casa (“l’ho vista costruire, mattone su mattone”, ti raccontano con gli occhi lucidi per l’emozione e le borse della spesa in mano, quando ti fermi a parlare con loro),
Questo sciopero, dunque, ha creato un precedente che difficilmente sarà privo di conseguenze. Per la prima volta nella storia delle Coop – dove spesso il sindacato di riferimento è accusato, a torto o a ragione, di collateralismo con la dirigenza delle “coop rosse” – i dipendenti delle coop sono stati invitati ad incrociare le braccia, per difendere non solo i loro diritti di lavoratrici e lavoratori ma – evento inedito e di straordinaria rilevanza politica, economica, sociale – quei valori che, da sempre, distinguono (o dovebbero distinguere) il mondo cooperativo. Non va dimenticato che la storia della cooperazione – in particolare la cooperazione di consumo – è antica come l’Italia. La prima cooperativa nacque a Torino il 4 ottobre 1854, quando un gruppo di lavoratori fondò il Magazzino di previdenza della Società generale degli operai. “Li spingeva una duplice molla, da un lato la necessità di difendersi dal carovita e dalle speculazioni, dall’altro la voglia di emancipazione”. Esigenze drammaticamente attuali, nonostante siano trascorsi 157 anni.
Oggi gran parte dei laureati in economia nelle Università italiane – salvo rare eccezioni, come i corsi di laurea del prof. Stefano Zamagni, a Bologna – non sanno nula di cooperazione: nei libri di testo l’argomento viene liquidato in poche righe. Trent’anni di sbornia neoliberista hanno relegato ai margini del dbattito pubblico questa realtà. Da anni il prof. Zamagni ripete, senza stancarsi, che le accuse alla cooperazione di avvantaggiarsi di presunti privilegi fiscali è sostanzialmente infondata: “Il trattamento fiscale di favore di cui si parla ha per oggetto solamente quella parte degli utili di esercizio che vengono destinati a riserva indivisibile della cooperativa; e non già l’intero ammontare degli utili, come si tende a far credere”. Anche se da alcuni anni le grandi cooperative – che non possono direttamente accedere alla Borsa – hanno affidato la gestione di gran parte del loro patrimonio immobiliare a delle SpA. Difficile, nell’Italia 2000, conciliare le “esigenze del mercato” con la vision e la mission della cooperazione. Tutte le coop della grande distribuzione hanno azioni della società Finsoe (che controlla Unipol SpA). Unicoop Firenze possiede il 3% di Monte dei Paschi (proprio venerdì scorso ha sottoscritto l’aumento di capitale della banca toscana). Relazioni potenzialmente pericolose, specie da quando gli speculatori internazionali hanno preso di mira l’Italia.
In questo scenario si inserisce lo sciopero di sabato scorso. La Fiom di Maurizio Landini che tanto ha fatto arrabbiare Marchionne (e il Pd) da sola rappresenta, con circa 360 mila iscritti, più degli iscritti di Fim e Uilm messi insieme e la metà dei lavoratori e delle lavoratrici sindacalizzati. Pochi sanno, però, che nella galassia Cgil (che conta complessivamente 5,7 milioni di iscritti) la Fiom è solo la quarta categoria degli attivi dopo la Fp (funzione pubblica), la Filcams (commercio, turismo e servizi) e gli edili della Fillea. “Siamo la più grande forza sociale in Italia – disse Guglielmo Epifani, penultimo e moderatissimo segretario generale della Cgil – quando si pensa di escluderla da confronti e da accordi, si va contro la maggior parte dei lavoratori e dei pensionati.”. Con la recente firma dell’accordo con Cisl e Uil pare che Susanna Camusso stia smarrendo questa consapevolezza. Ciò nonostante ogni giorno che passa la Fiom è sempre meno sola: dopo l’abbraccio dei 20.000 partecipanti alla festa di compleanno con Benigni e Santoro, ora sembra che qualcosa si muova anche nei luoghi storicamente meno dinamici del sindacato italiano. Provate ad immaginare quale potenzialità di rappresentanza e di condizionamento delle dinamiche politico-economiche può avere un tale bacino di partecipazione democratica, specie se sapesse coinvolgere i giovani.
Da sempre le categorie sindacalizzate più influenti sono i metalmeccanici e i pensionati. Già nel 2006/2007, una ricerca sulla condizione dei metameccanici curata da Francesco Garibaldo (vicepresidente del “Research Committee on Participation, organizational Democracy” dell’Associazione Internazionale di Sociologia) illustrava come l’Italia sia «uno strano paese, in cui tranne lodevoli eccezioni il lavoro non è rappresentato politicamente e non è raccontato mediaticamente. L’inchiesta vorrebbe sfondare questo muro di silenzio». Il muro ha resistito, ma la crisi globale ha aperto qualche breccia nell’autoreferenzialità del sindacato. Più difficile aprire le orecchie ai partiti, ma questo è un altro discorso…
Adriano Olivetti
Il legame tra politica, sindacato e cooperazione è fatto di tanti aspetti, non tutti necessariamente negativi: se in alcuni casi prevalgono commistioni e sovrapposizioni di ruoli (legali, ma pur sempre discutibili), è innegabile che la cooperazione di consumo – anche negli ultimi anni, sondaggi alla mano – riscuote maggiore fiducia di qualunque altra organizzazione sociale di massa. Un patrimonio da non disperdere: è proprio a partire da questo “vantaggio reputazionale” che sarebbe saggio abbandonare ogni complesso di inferiorità, magari seguendo le indicazioni del prof. Vittorio Capecchi (economista, esperto di cooperazione e direttore di ”Inchiesta”, storica rivista della Fiom), secondo il quale la cooperazione è uno degli esempi di come sia possibile creare imprese di successo pur rifiutando il modello neoliberista: “Adriano Olivetti alla fine della seconda guerra mondiale aveva definito un progetto politico che si poneva in netta alternativa al pensiero neoliberista (…) La sua idea centrale era quella di un welfare state sempre più attento ai bisogni delle diverse persone e sempre più radicato al livello locale per cui doveva essere costituito un nuovo organismo politico territoriale, la Comunità, da affiancare agli altri organismi più tradizionali (regione, province, comuni) per garantire una maggiore partecipazione delle persone alla gestione e organizzazione delle politiche locali”. Organismi simili ai “consigli di zona” di Coop Adriatica, eletti democraticamente dai soci ogni tre anni (si veda: www.lacoopadriatica.it). Non solo mercato, dunque: “L’impresa cooperativa, come d’altra parte ogni tipo di impresa, si trova oggi di fronte allo scontro tra i due modelli e, con maggiore o minore consapevolezza, può scegliere una «responsabilità sociale» che tende verso il modello neoliberista oppure una «responsabilità sociale» più orientata verso il modello di economia solidale”.
Il 2012 sarà l’anno internazionale della Cooperazione. L’occasione non va sprecata: chi ha a cuore il possibile rinascimento civile ed economico dell’Italia, dovrebbe auspicare che lo sciopero del 9 luglio sia il primo passo verso una rinnovata, meritata e perciò condivisa autorevolezza del modello cooperativo. Di recente è stata siglata una “superalleanza” tra i tre ceppi storici della cooperazione italiana: quello “rosso” (Legacoop), quello “bianco” (Confcooperative) e quello “verde” (Agci, di tradizione repubblicana). Siamo, a maggior ragione, ad un bivio storico: o le cooperatrici e i cooperatori, specialmente le nuove generazioni, sapranno rimettere al centro dei loro pensieri e delle loro azioni la coerenza con i valori originari, oppure – come è già accaduto in altri paesi europei – il destino è l’estinzione. Sarebbe una perdita incolmabile, che l’Italia non può permettersi: il mondo di oggi necessità di più cooperazione (vera) e meno aziendalismo. Non si tratta di avere nostalgia di un passato che non tornerà, bensì di avere la forza di difendere un patrimonio economico e culturale che non può essere dilapidato inseguendo a tutti i costi il mito di una “crescita” infinita che – con le attuali regole del gioco, dettate da un capitalismo decrepito – non può che essere fonte di ingiustizie e diseguaglianze. Forse basterebbe applicare alla lettera ciò che si legge nello statuto (e nel profilo Facebook) della Coop: “Coop sta per Cooperativa di Consumatori. Non è un’impresa come le altre, non è una società per azioni. È qualcosa di molto speciale, regolata da princìpi che uniscono le cooperative di tutto il mondo. L’idea base della cooperazione nasce dal bisogno e dalla solidarietà: si costruisce così una risposta imprenditoriale originale che, dalle prime esperienze pionieristiche, in più di un secolo e mezzo di storia, si sviluppa fino a diventare la prima organizzazione distributiva italiana. È una storia di persone, di lavoro, sacrifici ed entusiasmi, strettamente intrecciata con le vicende politiche e sociali del nostro paese. I valori originari sono ancora oggi alla base della cooperazione: la centralità delle persone, dei loro bisogni e dei loro diritti”.
La vertenza della Filcams – se, come è accaduto in passato, non sarà svenduta per un piatto di lenticchie – potrà avere un’influenza enorme e, dal mio punto di vista, positiva sui futuri scenari politici ed economici del Bel Paese. Specie se saprà costruire alleanze con altri pezzi di sindacato (Fiom in testa) e, soprattutto, con l’onda arancione che, da molto prima dei recenti referendum, sta scuotendo dalle fondamenta un paese da sempre troppo pigro per reagire agli abusi del potere. È forse giunto il tempo per una rinascita sociale fondata su valori e tradizioni antiche e che si manifesterà con avvenimenti e protagonisti nuovi. Persone che sapranno andare oltre i confini mentali delle false dicotomie del pensiero unico: conservazione/progresso, libertà/uguaglianza, legalità/giustizia. Tutte queste sono facce della stessa medaglia: non si può conservare ciò che è giusto senza saper progredire verso un mondo sempre più libero dalle ingiustizie. Cambiamento ed autoconservazione sono uno indispensabile all’altra. E per chi si riconosce nei valori cooperativi il cambiamento auspicabile non può che essere progressivo: ogni regresso nei diritti dei lavoratori come nella sobrietà degli investimenti, ogni passo indietro è un pericolo mortale. Chi oggi guadagna 800 euro al mese non ha nulla da perdere, “se non le proprie catene”…
Marco Lami, presidente Unicoop Tirreno
Ecco allora che lo sciopero del 9 luglio, non meno della contemporanea manifestazione delle donne a Siena, assume una indiscutibile rilevanza politica. Ennesimo tassello di quell’onda anomala che – nelle scuole e nelle università, da Milano a Napoli, nelle fabbriche, nei call center ed ora anche nei supermercati (non solo in quelli della Coop, si spera! Fino a prova contraria i dipendenti più maltrattati in assoluto sono certamente quelli dell’Esselunga, catena della grande distribuzione guidata dall’aggressivo 85enne Bernardo Caprotti, nemico giurato delle coop) – sta colorando di arancione il futuro di un Paese sull’orlo di una crisi di nervi. La Grecia è vicina e, col passare dei mesi, gli ultimi saranno sempre meno disposti a pagare il conto di una crisi prodotta da chi, negli ultimi anni, si è divertito a giocare con la Borsa e con la Vita delle persone. La cooperazione – nonostante errori e scelte incoerenti (si pensi ai casi di cui anche Domani si è occupato: dagli appalti per la base militare “Dal Molin” a Vicenza, fino al caso dei lavoratori di Unicoop Tirreno – ha certamente meno responsabilità di altri in questo senso. Ma le sue, poche o tante che siano, se le deve assumere. Così come dovrebbe valorizzare maggiormente le numerose iniziative positive di carattere sociale e culturale di cui, da sempre, è promotrice (il bicchiere mezzo pieno).
In generale, d’ora in avanti, il vero “fattore C” delle forze sociali democratiche ed antifasciste – aggettivi decisamente più comprensibili e meno ambigui dell’abusato “riformiste”.. – non potrà più essere il “culo” del Prodi di turno. La “C”, oggi più che mai, dovrebbe significare “coerenza”.
Quali saranno gli sviluppi di questa vicenda – dentro e fuori la cooperazione – lo vedremo dopo l’estate. Che altro aggiungere, per il momento? Avanti!, uniti (se possibile) verso una società più coerente con il dettato della nostra bella Costituzione repubblicana. Se non ora quando?
Riccardo Lenzi (Bologna 1974) è redattore e free lance. Ha scritto due libri: "L'Altrainformazione. Quattro gatti tra la via Emilia e il web" (Pendragon, 2004) e, insieme ad Antonella Beccaria, "Schegge contro la democrazia. 2 agosto 1980: le ragioni di una strage nei più recenti atti giudiziari" (Socialmente, 2010)